Tre viaggi alla ricerca di radici e identità

Milano, 10 marzo 2019 - Vite raccontate nel viaggio. In cerca del senso di sé, attraverso la dolorosa ricognizione dell’identità, senza farne però un’ossessione. E d’una memoria che, saldando le generazioni, offra indicazioni preziose su ciò che siamo e vogliamo. Non ci sono scorciatoie, in questo viaggio. Né approdi rassicuranti. «Dobbiamo nuotare in mare aperto», dice uno dei personaggi di “Ti rubo la vita” di Cinzia Leone, Mondadori, libro robusto (615 pagine), intenso e febbrile, che tiene insieme le storie di tre donne, Miriam, Giuditta ed Esther e le incrocia con la Grande Storia del Novecento (dalla Seconda Guerra mondiale all’Olocausto, dai travagli del Medio Oriente all’attualità) e con la geografia d’un Mediterraneo e di un’Europa segnate da fughe, approdi, ritrovamenti e ripartenze. Un cambio di identità, con il fatuo Ibrahim Özal, musulmano che s’appropria di abitudini e fortune dell’autorevole mercante ebreo Avrahàm Azoulay massacrato, con la moglie e la figlia, durante un pogrom nella Palestina del 1936. Un continuo incrociarsi di destini che attraversa famiglie e tempi.

Il "Mare aperto" ricorre anche nelle pagine di “Qual è la via del vento” di Daniela Dawan, edizioni e/o: «Il mare è parente dei sogni perché la fantasia è come navigare in mare aperto». Tripoli, 1967, tra le tensione della “guerra dei sei giorni” tra paesi arabi e Israele. Una caccia agli ebrei. Un tessuto di abitudini e convivenze lacerato dall’odio religioso. Una famiglia, i Cohen, come tante altre, in fuga dalla violenza. Una bambina fragile, Micol, strappata alle sue abitudini. E un fantasma, Leah, sorella maggiore, di cui nulla sa se non che è morta prima che lei nascesse. Un salto nel tempo. È il giugno del 2004 quando Micol, avvocato di successo, torna a Tripoli con una delegazione invitata dal colonnello Gheddafi per cercare di ricucire i rapporti con le famiglie ebraiche cui aveva confiscato i beni.

E lì, sotto il sole e la polvere luminosa di Libia, è tempo di fare i conti con le memorie di famiglia e la propria stessa complessa identità. L’identità stravolta sta al centro pure delle pagine de “Il tunnel” di Abraham B. Yehoshua, Einaudi. Il nemico è la malattia, un inizio di demenza senile che colpisce Zvi Luria, ingegnere stradale, da poco in pensione. La paura di dimenticare. La razionalità che svanisce. Ma anche la volontà di non arrendersi, riempiendo il tempo con l’antica passione professionale, costruire ponti, autostrade e, appunto, un tunnel. Lo scenario è un paese tormentato da una difficile contemporaneità carica di conflitti tra israeliani e palestinesi. La sfida è cercare una possibilità di convivenza con la malattia, senza negarla, senza subirla troppo. E quella demenza di Luria diventa metafora d’una più ampia malattia politica e sociale. Il risultato letterario è una straordinaria prova di poesia sulla vecchiaia, il degrado, la resistenza, la ricerca d’una possibile pace.