Garlasco (Pavia), 27 dicembre 2013 - L'ultimo ricordo del cronista risale a poco più di un mese fa. Un pranzo in una trattoria di provincia, in un quieto fine settimana pavese. L’uomo era subito apparso diverso. Smagrito come se il male già lo avesse assalito. Tormentato come chi vorrebbe ancora lottare ma sente le forze venire meno. Nicola Stasi è morto a 57 anni la sera del giorno di Natale. Dall’inizio del mese era ricoverato al reparto di ematologia del Policlinico San Matteo di Pavia. Nel corso degli anni la televisione aveva reso familiare l’immagine di quell’uomo, autentico pater familias. Sempre accanto al figlio, ombra fedele, al fianco, alle spalle, a districarsi insieme in una selva di microfoni e telecamere, nelle aule giudiziarie, inseguiti in strada dai cronisti. Fermo, tetragono nella convinzione dell’innocenza di Alberto, unico indagato per l’omicidio della fidanzata Chiara Poggi, il 13 agosto del 2007, a Garlasco.

Si vuole che Nicola Stasi avesse subito prelevato Alberto e lo avesse condotto in una località isolata, in campagna, lontano da occhi curiosi e da orecchie pronte a intercettare. Al ritorno, la convinzione della estraneità di Alberto era assoluto. Da allora Nicola era stato il padre-paladino, il difensore più strenuo del figlio accusato, incarcerato qualche giorno, processato, alla fine assolto in primo e in secondo grado.
Nicola Stasi rendeva scarso onore a un menu deliziosamente tentatore. Pareva avere rinunciato anche alle battute che riservava agli amici più stretti, perché per gli altri rimaneva ben celato sotto la scorza del’uomo duro che si era fatto da solo. Figlio di un camionista che aveva sgobbato in Africa per anni, morto il padre si era trasferito a Milano con la mamma e il fratello Luigi. Dopo avere diretto l’Autoricambi Segrate, nel 1998 con la moglie Elisabetta Ligabò e il figlio Alberto aveva messo radici a Garlasco, doveva aveva aperto una rivendita di autoaccessori.

«Si ricomincia. Vi rendete conto di quello che significa?», chiedeva ai compagni di tavolo. Era quello il suo tormento, iniziato quando la Cassazione aveva annullato la sentenza dell’appello milanese che confermava l’assoluzione di Alberto e aveva disposto un nuovo processo. Qualcosa sembrava essersi rotto in quel combattente, dopo oltre sei anni di passione vissuti in simbiosi con il figlio. Forse aveva cominciato ad ammalarsi e un po’ a morire allora. «Avevo sperato — aveva detto alla fine del pranzo — che tutto finisse e non se ne parlasse più. Ma quante volte mio figlio deve dimostrare di essere innocente? Quando finirà tutto questo?». È stato forte fino all’ultimo, per suo figlio. «Dietro la forza di Alberto — dice il professor Angelo Giarda, uno dei difensori — c’era la forza morale e umana di un padre che si era caricato sulle spalle tutto il processo e tutta questa vicenda. Alberto poteva anche reagire. Nicola poteva sopportare e basta».