CULTURA, TURISMO E LO SPETTRO DELLO ‘STATALISMO DI RITORNO’

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DAL TERRIBILE DESERTO della resilienza alle fertili praterie della ripartenza. È lo strano destino di cultura e turismo in Italia, che insieme rappresentano molto per il nostro Paese: non solo per il rilevante peso sul Pil complessivo, ma anche per il loro valore simbolico nell’affermazione di una vocazione-Paese sostenibile. In questi mesi, gli operatori della cultura e del turismo sono protagonisti di un continuo rovesciamento di ruoli e prospettive a causa delle continue incertezze legate alla diffusione del virus e delle sue varianti. Se le attività culturali e ricreative sono state le più penalizzate (per necessità sanitaria e per scelta politica) durante l’emergenza e molte aziende del settore non sono riuscite a superare la lunga notte, chi è rimasto sul mercato può cogliere oggi opportunità impreviste.

Nel breve termine, le occasioni generate dalla vittoria degli Azzurri agli Europei: flussi aggiuntivi ed un rafforzamento del ‘brand Paese’, grazie alle emozioni che solo il calcio può muovere. Nel medio termine, si sta profilando una grande chance per il sistema italiano dell’accoglienza e dell’entertainment: grazie alla bellezza diffusa dei nostri territori, unica al mondo, e alla nostra tradizionale attenzione al vivere bene, nei prossimi anni l’Italia potrebbe intercettare meglio dei competitors i nuovi trend della globalizzazione post-pandemia che premieranno chi saprà offrire (a turisti, imprenditori, professionisti e talenti) qualità della vita diffusa, nuovi modelli di entertainment che mixino storia e innovazione, e insieme sicurezza in ambito sanitario. Ma su questo potenziale new deal del turismo e della cultura italiani aleggia un pericoloso fantasma: la fine di un modello vincente di partnership tra pubblico e privato, in nome di un nuovo (e al tempo stesso antichissimo) pregiudizio anti-impresa che porterebbe a riservare in esclusiva allo Stato e agli enti locali la gestione del patrimonio culturale italiano. Non è passato inosservato il warning lanciato nei giorni scorsi da Luigi Abete, imprenditore (anche) nel settore dell’entertainment, da decenni al vertice della rappresentanza d’impresa e oggi presidente dell’Associazione Imprese Culturali e Creative: sulla collaborazione tra pubblico e privato nel mondo della cultura "non sono stati fatti passi avanti, ma solo dei grandi passi indietro", perché s’avanza "una logica statalista preoccupante". Per cogliere il punto, basta pensare a quale fosse lo stato dei musei in Italia 30 anni fa. Prima che la legge consentisse il coinvolgimento dei privati nella gestione dei beni culturali. Perché la vexata questio del rapporto pubblico-privato nella gestione del ‘petrolio d’Italia’ è inquinata, ancora oggi, da un grande equivoco: il bene pubblico inteso non come bene a disposizione di tutti i cittadini, ma come ‘proprietà’ del dirigente o funzionario pubblico pro-tempore che tende a massimizzare il suo controllo evitando ospiti sgraditi. E se il prezzo da pagare è la decadenza del patrimonio, pazienza.

Una serie di falsi miti, peraltro, alimentano la diffidenza nei confronti del privato. Il primo è lo sganciamento artificiale dell’attività di tutela da quella di valorizzazione: in realtà – nella maggior parte dei casi – la gestione privata ha consentito e consente oggi di tutelare il bene pubblico, come step necessario prima di avviare qualsiasi forma di valorizzazione. Un secondo falso mito, analogo, è quello che separa l’esperienza artistica dai servizi collegati: i secondi non sono soltanto un modo per fare business, ma anche (soprattutto) lo strumento per rendere più fruibile, più piacevole, più memorabile per il turista l’esperienza stessa. Infine occorre abbandonare l’idea medievale dell’immutabilità della forma e del format museo: se la gestione privata è in grado di avviare investimenti in digitalizzazione, capaci di donare una seconda vita al nostro patrimonio artistico, consente un salto di qualità sia nella tutela che nella valorizzazione del bene pubblico che spesso Stato ed enti locali non sono in grado di garantire. Per sfruttare fino in fondo il vento della ripartenza, dovemmo ribaltare il ragionamento: il nostro grande obiettivo è oggi quello di non lasciare solo il settore pubblico nell’immane sfida di conservare, valorizzare, rilanciare e promuovere il nostro patrimonio artistico e culturale. Ne saremo capaci?

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