"Green pass, prego", ok se il luogo è "sacro"

Mercoledì sera sono andata allo stadio San Siro. Tralasciando il risultato dell'Italia contro la Spagna nella semifinale di Nations League e tralasciando il fatto che nella mia vita ho visto centinaia di partite di calcio allo stadio ma mai quella della Nazionale e quindi il mio esordio non è stato dei più felici, come molti degli spettatori presenti non tornavo allo stadio da oltre due anni. E sono rimasta molto sorpresa. Che lo stadio sia uno dei "non luoghi" per eccellenza è un dato di fatto ormai da tempo. E' considerato spesso un posto a se stante, con linguaggio proprio e norme proprie. Quello che non avevo considerato era la sacralità dello stadio in tempo di covid-19. Se c'è chi stigmatizza in modo negativo il fatto che dal 15 ottobre il green pass sarà obbligatorio nei luoghi di lavoro, nessuno l'altra sera ha fatto una piega ai controlli per l'ingresso allo stadio. Il che dovrebbe essere normale in un Paese civile, ma in Italia sembra quasi un miracolo. Nessuna contestazione, nessun "io non ho il green pass", nessun "lei non può chiedermi i documenti". Niente di niente. Tutti in coda, smartphone per il biglietto della partita e il green pass e carta d'identità alla mano, senza protestare. "Bella forza - si dirà -, ognuna per entrare aveva pagato il biglietto e non poteva di certo permettersi di perdere soldi". Certo, sicuramente questo è un aspetto da considerare. Insieme al fatto che nessuno aveva interesse a contestare, perché l'obiettivo era quello di superare i controlli ed entrare a godersi lo spettacolo. Uno spettacolo considerato da molti fin troppo nazionalpopolare, ma che ha inequivocabilmente dato un segnale in questo caso: se il luogo in cui ci interessa entrare è per noi "sacro" come è lo stadio per molti, viene quasi automatico rispettare le regole. Soprattutto se le regole sono precise, definite, chiare e inderogabili. Insomma, detto all'italiana: se non si possono trovare scappatoie.