Sana, uccisa per il no al matrimonio. Riemerge il padre: sono innocente

Brescia, per la Procura era morta in Pakistan per un delitto “politico“ architettato da genitore e fratello. Dopo la confessione ritrattata, l’assoluzione in patria e la sorpresa: gli accusati in Italia per il processo

Sana Cheema

Sana Cheema

Brescia, 2 aprile 2021 - Il giudice per due volte aveva rinviato l’udienza preliminare – prossima data, ottobre - perché gli imputati non si trovavano. Il procedimento sulla morte di Sana Cheema, la 25enne italopakistana cresciuta a Brescia che rifiutava le nozze combinate, e che la magistratura italiana ritiene uccisa tre anni fa in Pakistan dal padre e dal fratello, sembrava ormai a un passo dal dimenticatoio. L’irreperibilità dei presunti autori dell’omicidio pregiudicava infatti la fattibilità del processo, di cui per legge gli accusati devono essere a conoscenza. Nelle scorse ore, la sorpresa: Mustafa Cheema, 52 anni, e il figlio Adnan, 33, nei guai per omicidio premeditato, si sa dove sono. Il luogo per ora è top secret. Ma hanno contattato un avvocato del Foro di Brescia, pare di spontanea volontà, e gli hanno affidato il mandato difensivo, incaricandolo di aiutarli a dimostrare la loro innocenza. Anche davanti a un Tribunale italiano. Perché i Cheema si dicono innocenti, sebbene il capofamiglia nell’immediatezza dei fatti si assunse la responsabilità del delitto, ma poi ritrattò.

Le sue dichiarazioni rese a caldo in assenza di un legale furono però dichiarate inutilizzabili. Così Mustafa – cittadino italiano, come Sana – e il primogenito furono assolti dalla Corte d’assise di Gujrat, che dopo averli processati per omicidio non ritenne le prove a carico sufficienti. A giudizio erano finiti anche la madre e nove persone, tra cui gli zii e un cugino, tutti assolti. Sana morì improvvisamente il 18 aprile 2018 a Gujrat, nel villaggio in cui era nata, con un biglietto aereo in tasca per rientrare in Italia il giorno seguente dopo una permanenza all’estero di tre mesi, in circostanze controverse. La famiglia sostenne la tesi della disgrazia, dell’improvviso malore per ‘debolezza’. Mangiava poco, ebbe un crollo, dissero, e vi fu un arresto cardiaco. Le amiche della giovane però subito sospettarono il delitto d’onore, e chiesero indagini.

Per l’ex procuratore generale Pierluigi Dell’Osso, che prima della pensione avocò l’inchiesta e molto si spese per superare una serie di scogli procedurali così da mandare il fascicolo davanti ai giudici italiani, si trattò di un femminicidio ‘politico’: Sana fu strangolata con un ‘doupat’, un tubante elastico tradizionale, dagli uomini del clan che mal sopportavano il suo continuo rifiutare papabili futuri mariti e la sua ribellione ai ditkat religiosi. Il padre l’avrebbe immobilizzata su un letto mentre il fratello le stringeva il collo con il foulard. Da anni trapiantati a Brescia ma legati alle tradizioni, i Cheema per l’accusa erano in continuo disaccordo con la ragazza. Così ne avrebbero provocato la morte "per asfissia meccanica violenta da compressione del collo mediante strangolamento – recitava l’atto conclusivo dell’inchiesta – annullando nel contesto sociale, politico ed economico caratterizzato da organizzazione per caste, i diritti politici e sociali fondamentali della vittima, soppressa per avere reiteratamente rifiutato il matrimonio combinato stabilito dai congiunti".