Sana, la Procura ci prova: "Papà e fratello a processo"

La 25enne è morta in Pakistan ad aprile 2018, familiari assolti nel Paese d’origine. Secondo i magistrati bresciani è stata uccisa perché rifiutava le nozze combinate

Sana Cheema sarebbe stata strangolata

Sana Cheema sarebbe stata strangolata

Brescia, 14  marzo 2020 - È morta in Pakistan, nel Paese d’origine, in circostanze controverse. Era il 18 aprile 2018. Per la famiglia si è trattato di una disgrazia, un improvviso malore. Per la Procura generale, invece, è stata strangolata con un ‘doupat’, un turbante elastico tradizionale, ed è stato un femminicidio di cui ora ne devono rispondere davanti alla giustizia italiana il padre e il fratello. Si torna a parlare di Sana Cheema, la venticinquenne italo-pakistana cresciuta a Brescia che rifiutava le nozze combinate imposte dal clan. Il procuratore reggente Marco Martani, raccogliendo l’eredità del procuratore Pierluigi Maria Dell’Osso che aveva avocato le indagini, ha chiesto il rinvio a giudizio per il papà, Mustafa Cheema, 51 anni – cittadino italiano come la figlia –, e il fratello maggiore Adnan, 32. I due sono accusati di omicidio premeditato, aggravato dall’abuso di rapporto parentale e di relazioni domestiche. L'udienza preliminare avrebbe dovuto essere celebrata il 17 marzo, ma per l’emergenza sanitaria è stata rinviata al 30 giugno.

Gli imputati sono irreperibili. E il giudice, spiega l’avvocato Sandra Dibitonto che assiste i Cheema, "non essendo loro stati informati dell’inchiesta a carico, con ogni probabilità si troverà a dover sospendere il procedimento e a disporre nuove ricerche". L’inchiesta sull’omicidio di Sana era stata uno degli ultimi atti prima della pensione di Dell’Osso, che si era dato molto da fare per superare tutta una serie di scogli procedurali, a cominciare dal principio giuridico del ‘ne bis in idem’, il divieto del doppio giudizio per la medesima vicenda, così come quello della non presenza sul suolo italiano degli imputati. Già processati in Pakistan per omicidio, i Cheema erano stati assolti dalla Corte d’assise di Gujrat per insufficienza di prove. Con loro a giudizio c’erano anche la madre, Nargis Tahira, e nove persone, tra cui gli zii, tutte scagionate.

E questo nonostante Mustafa Cheema inizialmente avesse ammesso le proprie responsabilità, salvo poi ritrattare. Le sue dichiarazioni, rese in assenza di un avvocato, non sono state considerate prove. Ma per la Procura generale il finale della storia va riscritto. Sana è vittima di un femminicidio ‘politico’ – questa la rilettura di Dell’Osso - compiuto in una famiglia da anni trapiantata a Brescia molto legata alle tradizioni, in continuo disaccordo con la ragazza, refrattaria alle regole della casta e della religione.

Gli imputati avrebbero provocato la morte "per asfissia meccanica violenta da compressione del collo mediante strangolamento, annullando nel contesto sociale, politico ed economico caratterizzato da organizzazione per caste, i diritti politici e sociali fondamentali della vittima, soppressa per avere rifiutato il matrimonio combinato stabilito dai congiunti", si leggeva nell’atto conclusivo delle indagini, le cui risultanze sono state trasmesse al gip per la richiesta di processo. Andate a vuoto le proposte di una serie di mariti ‘papabili’, padre e fratello avrebbero tappato per sempre la bocca alla giovane ribelle, da tre mesi in Pakis tan, il giorno prima del suo rientro a Brescia. Il genitore immobilizzandola nella camera da letto, il fratello stringendole la gola. Ma non è tutto. Il padre è accusato anche di maltrattamenti dal 2016. Avrebbe ripreso più volte la figlia "per il suo modo di vivere non conforme alle tradizioni, esercitando pressioni per farla sposare a una persona già individuata (un cugino proprietario terriero, ndr) e percuotendola più volte". Il 20 novembre 2016 la 25enne chiese aiuto al pronto soccorso del Civile perché ferita a un fianco e alla gamba destra. "Sono caduta dalle scale", raccontò lei. Ma per gli inquirenti fu pestata forse un mattarello. © RIPRODUZIONE RISERVATA