Pavia, 5 marzo 2014 - Non vi è prova di come quei frammenti di file siano pervenuti nel computer, nè che Stasi li abbia visionati e nemmeno che dai nomi dei frammenti di file emergesse il loro contenuto pedopornografico”. Così la terza sezione penale della Cassazione spiega perchè, il 16 gennaio scorso, ha assolto “perchè il fatto non sussiste” Alberto Stasi - imputato in attesa del processo d’appello-bis per l’omicidio della fidanzata Chiara Poggi, avvenuto a Garlasco nell’agosto 2007 - dall’accusa di detenzione di materiale pedopornografico, per la quale era stato condannato in appello a trenta giorni di reclusione, convertiti in 2.540 euro di multa.

“L’elemento soggettivo del reato in esame - ricorda la Suprema Corte nelle motivazioni della sentenza, depositate oggi - è costituito dal dolo diretto, cioè nella volontà di procurarsi o detenere materiale pornografico proveniente dallo sfruttamento di minori”. In tal modo “si è voluto evidentemente tenere indenne - si legge nella sentenza - dalla sanzione penale anche chi, ad esempio scaricando migliaia di file con un sistema ‘peer to peer’, si trovi a detenere inconsapevolmente tra questi dei file a contenuto pedopornografico”. Per i giudici di piazza Cavour, “la circostanza che Stasi detenesse nella parte accessibile, cosi’ come in quella non accessibile, del computer migliaia di immagini e file a contenuto pornografico, in quanto tali leciti, tutti classificati e catalogati, depone ancor piu’ per la detenzione inconsapevole di quei frammenti di file” a contenuto pedopornografico, oggetto dell’imputazione.