Nibionno (Lecco), 6 novembre 2013 - Ancora quattro, forse cinque settimane, poi Joele Leotta potrà  tornare a casa. I genitori stanno attendendo solo il nulla osta da parte degli investigatori inglesi per rimpatriare il feretro del figlio 19enne, che la sera di domenica 20 ottobre è stato massacrato di botte a Maidstone, capitale della contea del Kent, alle porte di Londra. Per concedere il via libera definitivo le autorità  britanniche starebbero aspettando il responso definitivo dell’autopsia. L’esame è già stato eseguito e il coroner ha stabilito che il giovane brianzolo è morto in seguito alle gravi lesioni alla testa, provocate verosimilmente da alcune violente pedate sferrate dai quattro balordi che lo hanno assalito, i quali a quanto pare indossavano stivali e pesanti scarpe da lavoro.

Mancano tuttavia gli esiti dei test di laboratorio per i quali occorre più tempo. I colpi letali sarebbero stati assestati mentre il ragazzo si trovava già  a terra, sul pianerottolo delle scale, dopo essere riuscito a scappare dalla propria stanza divenuta un mattatoio per lui e l’amico di sempre e coetaneo Alex Galbiati di Rogeno in seguito all’irruzione delle belve lituane. «Il pesteggio è avvenuto dentro e fuori la camera» rivela Luca Galbiati, 53 anni, padre del brianzolo sopravvissuto alla mattanza. Che l’agguato si sia protratto per interminabili minuti lo hanno confermato diversi testimoni, ma gli inquirenti lo hanno dedotto pure dallo stato in cui è stato ridotto l’alloggio dei due adolescenti brianzoli: i criminali hanno non solo abbattuto a pugni la porta di quella sorta di sgabuzzini, ma hanno anche devastato a calci le pareti in cartongesso.

«È stato tremendo - riferisce sempre il padre  del superstite -. Mi chiedo ancora come mio figlio sia riuscito a scampare a quella spedizione e a riprendersi così in fretta, senza conseguenze, almeno a livello fisico». Per le ferite dell’anima invece occorrerà  tanta pazienza: «Alex continua a pensare a Joele, per lui era come un fratello, non riesce a darsi pace, si sente come in colpa per non averlo potuto salvare ed essergli sopravvissuto».

di Daniele De Salvo

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