Milano, 15 febbraio 2018 - Plauso alla magistratura quando con interpretazione impeccabile (e non creativa) tutela diritti della persona e pungola il legislatore a riconoscere che la vita è un diritto, non un dovere da crudele via crucis. È la interpretazione coraggiosa quanto esemplare che ha consentito per Welby il suicidio assistito omissivo, per Eluana il riconoscimento di una sorta di biotestamento implicito, per Dj Fabo – da parte della Procura – il diritto al suicidio in nome della dignità; forzando il legislatore neghittoso alle norme sul biotestamento. Ora i giudici milanesi di Cappato scrivono una pagina alta. Non solo riconoscono a Dj Fabo il diritto al suicidio in nome di quello alla dignità, ma in generale affermano la «libertà» di decidere «come e quando morire».
Così, nel giudicare Cappato, avanzano alla Consulta serio dubbio di costituzionalità dell’art. 580 c.p., quando punisce non solo chi «determina o rafforza l’altrui proposito di suicidio», ma anche chi «ne agevola in qualsiasi modo la esecuzione», esponendo al rischio di censura penale ogni presenza misericordiosa al capezzale o nel viaggio estremo. Nella speciosa dialettica fra diritti del singolo e pretesa di cancellarli invocando un trascendente «valore» della vita come capace di imporre la sopravvivenza persino quando fonte di lancinante tortura o sommo degrado, la Corte di Milano privilegia i primi, in nome delle libertà della persona come padrona del proprio destino. Ne consegue il diritto alla dignità della vita come quello di rinunciarvi, soprattutto quando svilita a indegna sofferenza. Plauso, allora, sia al riconoscimento del diritto alla «dignità» fra i nuovi diritti della persona, sia alla trasparente resistenza dei giudici al punire chi – come Cappato – sia solo misericordioso samaritano dell’ultimo passo