Delitto Macchi, Binda assolto in Appello: "Quella caccia all’arma costosa e inutile"

La sentenza si sofferma sulla collinetta smantellata e lo spreco di soldi pubblici

Stefano Binda

Stefano Binda

Milano, 21 ottobre 2019 - Dieci giorni di ricerche, scavi, spese nel Parco Mantegazza di Varese per l’ipotetico disseppellimento dell’arma del delitto, il coltello che per 29 volte colpì Lidia Macchi. Attività costosa e alla fine inutile sulla quale si soffermano le motivazioni della sentenza con la quale la prima Corte d’Assise d’appello di Milano ha assolto per non avere commesso il fatto Stefano Binda  dall’accusa di essere il killer. Era stata Patrizia Bianchi a riferire alla squadra mobile varesina che uno o due giorni dopo la scoperta del corpo straziato di Lidia, l’amico Stefano era passato a prenderla con la sua Fiat 131.

Sul pianale dell’auto Patrizia aveva notato un sacchetto «con qualcosa di rigido, in quanto rimaneva in piedi». Binda aveva arrestato la vettura in un luogo che l’amica non conosceva e s’era disfatto dell’involucro. Il luogo individuato era il Parco Mantegazza, sequestrato nel 2016: in azione Mobile e Genio Guastatori con geoscanner. «L’imponente dispiego - scrive la sentenza - di uomini e mezzi” era risultato infruttuoso perché su venti reperti, di cui otto solo definibili coltelli, sono state eseguite campionature biologiche tutte negative», né altro ci si poteva attendere a distanza di trent’anni. Il lavoro si era «rivelato, quanto a pratico interesse, doppiamente inutile» perché la stessa Bianchi, il 30 maggio 2017, aveva depositato negli uffici giudiziari una lettera nella quale si sentiva in dovere di precisare «che troppo spazio era stato dato alla faccenda del sacchetto».

Era stata invece sottovalutata, a suo parere, la circostanza che Stefano le aveva chiesto dove abitassero i Macchi e parlato di una lettera per loro. Una missiva, stabilisce la sentenza, che se anche ci fosse stata non poteva essere assolutamente la famosa “In morte di un’amica”, recapitata alla famiglia Macchi.