Caso Lidia Macchi, ancora un mese per cercare l'arma al Sass Pinì

Si torna a setacciare il bosco dove fu scoperto il corpo nel gennaio del 1987

Sopralluogo nella zona dove fu trovato il cadavere di Lidia

Sopralluogo nella zona dove fu trovato il cadavere di Lidia

Varese, 28 febbraio 2017 - Tessuti riprodotti in laboratorio e inseminati per verificare se gli spermatozoi lasciati sul corpo di Lidia Macchi siano ancora "vivi" e possano custodire ancora il Dna del suo assassino a distanza di 30 anni. E dopo essere stati conservati in formaldeide fino a oggi. È quanto tenteranno di fare l’antropologa forense Cristina Cattaneo e il suo staff.

Inoltre si intende identificare anche il Dna mitocondriale della famiglia di Lidia "al fine di evitare un pericoloso effetto Bossetti", spiega l’avvocato Daniele Pizzi, legale della famiglia Macchi. Non solo: la procura generale di Milano, che coordina le indagini, ha chiesto e ottenuto una proroga di 30 giorni per cercare l’arma del delitto.

Al Sass Pinì, località boschiva di Cittiglio dove il cadavere della giovane studentessa varesina di 20 anni, scout e militante di Comunione e Liberazione, fu trovato nella mattinata del 7 gennaio 1987. Lidia fu uccisa nella notte tra il 5 e il 6 gennaio di quell’anno con 29 coltellate: era andata a trovare un’amica ricoverata all’ospedale di Cittiglio dopo un incidente d’auto e non fece più ritorno a casa. Il 15 gennaio 2016 fu arrestato Stefano Binda, 49 anni, di Brebbia, ex compagno di liceo di Lidia, accusato di aver stuprato e ucciso la ventenne. Questa la tesi accusatoria: il 12 aprile Binda compatirà davanti alla Corte d’Assise di Varese.

Nel frattempo gli inquirenti torneranno a scavare al Sass Pinì alla ricerca dello stiletto utilizzato per uccidere Lidia e dei suoi occhiali. Le stesse ricerche sono state eseguite nel parco Mantegazza a Masnago dove Binda buttò un sacchetto di carta pochi giorni dopo l’omicidio, secondo quanto afferrmato da Patrizia Bianchi, la teste che tre anni fa, guardando la tv, riconobbe come appartenente a Binda la grafia della lettera «In morte di un’amica», recapitata a casa Macchi il giorno dei funerali di Lidia, per gli inquirenti scritta dall’assassino o da qualcuno informato sui fatti. A oggi nulla di compatibile con l’arma che uccise Lidia è mai stato ritrovato.

La ricostruzione di tessuti, invece, riguarda l’imene della ragazza che si è salvato dalla distruzione dei reperti relativi all’omicidio ordinata nel 2000. Secondo la relazione del medico legale che nel 1987 eseguì l’autopsia sul cadavere della ragazza era presente liquido seminale. La ricostruzione dei tessuti, con l’inseminazione, servirà agli antropologi a capire se è possibile tentare analisi sul tessuto originale.

Una «prova» necessaria: gli esami, infatti, distruggeranno il campione originale. Prima di perdere quella prova preziosa i periti vogliono capire quante possibilità esistano di riuscire ad avere il Dna dell’assassino, o di chi ebbe un rapporto sessuale con Lidia poco prima che fosse uccisa. Il Ris di Parma ha infine eseguito un prelievo del Dna della madre di Lidia. Lo scopo è quello di estrarre anche Dna mitocondriale da comparare con qualunque reperto non appartenente a Lidia che venisse trovato sulla salma riesumata a marzo.