Morti in ospedale a Saronno, Cazzaniga: "Non volevo vederli soffrire"

L'ex aiuto primario del pronto soccorso in aula a Busto Arsizio: "Colleghi indifferenti al dolore dei pazienti. Io no"

Leonardo Cazzaniga

Leonardo Cazzaniga

Busto Arsizio (Varese), 19 marzo 2019 - Nell'aula della Corte d’Assise di Busto Arsizio si parla dell’omicidio di Maria Rita Clerici, la madre di Laura Taroni, all’epoca amante di Cazzaniga. Per l’ex aiuto primario del pronto soccorso di Saronno non è solo l’occasione per dare la sua versione, rintuzzare le accuse dell’ex amante, dare una versione per nulla romantica della loro storia, esporre il suo “credo” terapeutico. «A me interessava molto che il paziente non dovesse soffrire. Ai miei colleghi interessava molto poco. A volte glielo chiedevo: ‘Non vedi come soffre?’. Per evitare di finire davanti a un pubblico ministero che desse loro dell’assassino, avevano una tecnica astensionistica».

Nessun confronto di gruppo sull’argomento, neppure una chiacchierata alla macchinetta del caffè: solo indifferenza. «Stava morendo – dice parlando del paziente Giuseppe Pancrazio Vergani – sotto i miei occhi, questione di 10 minuti. A parte che non farò più il medico, non era mia abitudine godere della sofferenza dei pazienti». Non conserva memoria della morte di Domenico Brasca, dodicesima e ultima a essergli addebitata. «Non ricordo. Cosa mi sposta di essere accusato di 11 o di 12 omicidi quando rischio comunque che mi venga comminato l’ergastolo?».

I rapporti con Laura Taroni. «I miei sentimenti si sono modificati con la lettura delle intercettazioni e riguardando i suoi comportamenti negli ultimi due anni e mezzo. Aveva tenuto atteggiamenti che mi avevano fatto pensare che aveva smesso di amarmi qualche mese dopo l’inizio della nostra relazione». «Perché la Taroni non l’ha lasciata, che cosa voleva da lei?», è la domanda del procuratore Gian Luigi Fontana. «Fatta salva la prima parte, se era vera, di innamoramento, credo che lei volesse un supporto per la gestione della sua famiglia. Anticipo la sua domanda: supporto omicidiario? No». «Mi ha attribuito una domanda che non avrei fatto», è la replica del procuratore, che gli chiede dell’accusa della Taroni per l’omicidio della madre.

«Come medico dovrei pensare a una condizione psichiatrica aggravata dalla morte della mamma. Condizione di cui, da medico, ero consapevole. Come uomo penso a una strategia difensiva per spostare su di me il gran carico della morte delle persone». Maria Rita Clerici muore a 61 anni, la sera del 4 gennaio 2014, in casa della figlia Laura, a Lomazzo. Fino al giorno prima era in buone condizioni. Cazzaniga rievoca i rapporti conflittuali fra Laura e la madre, l’inconciliabile dialettica fra lui e la Clerici, l’immediata vicendevole antipatia, l’ostilità della donna alla sua relazione con la figlia, gli scontri verbali violenti, la scenata la sera del 31 dicembre 2013. Apprende della malattia di Maria Rita verso le 19 del 4 gennaio nell’abitazione dei genitori, a Cusano Milanino. È la madre a informarlo di avere ricevuto una chiamata della Taroni: Maria Rita è febbricitante e soffre di cefalea. Il pm Maria Cristina Rita contesta una telefonata a Laura partita dal suo cellulare alle 17.28. Non la ricorda. Cazzaniga torna a Saronno. Al pronto soccorso preleva una fisiologica (acqua e sale), 2 grammi di Rocefin (antibiotico) in due scatole, 80 milligrammi di Urbason (cortisonico) in 4 confezioni da 20 milligrammi.

Verso le 20.30 È al capezzale della malata. Maria Rita Clerici è stesa su un letto nella stanza dei bambini, soporosa ma cosciente. La Taroni dispone di siringhe. La terapia è in bolo al braccio destro. «Quello che mi sorprese – racconta Cazzaniga – fu che andò in arresto quasi immediato, uno o due minuti dopo l’iniezione di farmaci». Cazzaniga e la Taroni si alternano nella rianimazione cardio-polmonare. Intubazione. Cinque fiale di adrenalina. È lo stesso Cazzaniga a compilare il certificato Istat indicando come causa della morte una encefalite virale. «Se avessi voluto uccidere e non lo volevo, non avrei certamente usato farmaci la cui possibilità di dare la morte era una su un milione».