Caso Macchi, scontro sulla lettera. La mamma: "Anonimo, fatti avanti"

L’avvocato del teste misterioso: "Quello scritto è suo, non di Binda"

Paolina Bettoni, la madre di Lidia Macchi

Paolina Bettoni, la madre di Lidia Macchi

Varese, 18 ottobre 2017 - All'epoca era giovane universitario. Una persona che non conosceva Lidia Macchi. Completamente estraneo alla tragedia della sua fine. Sconosciuta all’avvocato Piergiorgio Vittorini quando si è presentata nel suo studio di penalista, a Brescia, per rivelargli, dopo un lungo tormento, che era sua, e non dell’uomo che oggi viene processato in Assise a Varese per l’omicidio di Lidia Macchi, la mano che aveva vergato «In morte di un’amica».

La prosa anonima recapitata alla famiglia il 10 gennaio 1987, cinque giorni dopo il delitto e poco prima dei funerali, non era la confessione dell’assassino, ma un componimento ispirato ai “Quartetti” di Eliot, che sarebbe dovuto entrare in florilegio in ricordo della vittima. L’avvocato Vittorini dialoga di tutto questo con i cronisti dopo la sua deposizione lampo. Davanti alla Corte, avvertito da una ordinanza che era sua facoltà di avvalersi in pieno del segreto professionale, oppure rinunciarvi in toto, ha deciso per la prima opzione ed è stato congedato. Prima di lasciare l’aula il professionista bresciano si è avvicinato alla madre di Lidia Macchi. Al suo saluto «Volevo dare conto della mia solidarietà», la risposta di Paolina Bettoni è stata: «Non è così che si dà la solidarietà». Stefano Binda, l’imputato, chiede di essere riportano in carcere «per un sentimento di disperazione». C’è un uomo che rimane nell’ombra. A questo fantasma, cosi come all’avvocato Vittorini, sono diretti gli appelli di mamma Paolina e del legale dei Macchi, Daniele Pizzi. Quest’ultimo si propone per confrontarsi con il collega e per acquisire, con ogni possibile riservatezza, sia il Dna dello sconosciuto (da comparare con quello rimasto sulla busta, che non è di Binda) sia suoi autografi per confrontarli con la grafia di «In morte di un’amica».

«Io mi auguro - sono le parole accorate della madre - che si metta una mano sulla coscienza e dica la verità. È inutile nascondersi. Così non aiuta nessuno». «A questo punto - dice Pizzi - ritengo sia fondamentale che la persona che si è rivolta all’avvocato Vittorini faccia un atto di coscienza, esca allo scoperto, dica di avere scritto questa lettera. Mi auguro che l’avvocato Vittorini, come la Corte gli ha dato facoltà di fare, entro la prossima udienza cambi idea e riveli tutto quello che deve rivelare. Qualora questo non avvenisse, mi farò dare incarico dalla famiglia Macchi di eseguire una indagine difensiva, anche in altro procedimento, grazie alla quale poter ascoltare quanto ha da dire l’avvocato Vittorini. In quella occasione l’avvocato Vittorini potrà anche consegnare campione anonimo di Dna da sottoporre a comparazione con quello della busta dove era contenuto lo scritto arrivato alla famiglia. Potrà anche consegnarmi, in forma anonima, diari o scritti dell’epoca vergati dal suo assistito, al fine di una comparazione grafologica. Noi vogliamo arrivare alla verità». Severo il commento del sostituto procuratore generale Gemma Gualdi, che acquisirà il video della intervista di Vittorini: «Mi dicono che l’avvocato abbia ritenuto opportuno rendere delle dichiarazioni fuori dall’aula. Mi dispiace perché i procedimenti si fanno nelle aule di giustizia e applicando le norme del codice, sia di procedura che di diritto sostanziale. A trent’anni da un delitto efferato e con un imputato in carcere, a maggior ragione se considerato innocente, un avvocato noto, del Foro di Brescia, doveva avvertire il dovere morale di riferire».