Sindaca uccisa a Cardano al Campo, niente sconti al killer

Appello bis: l’ex ghisa non merita le attenuanti. La difesa: ricorso

Laura Prati

Laura Prati

Cardano al Campo (Varese), 28 marzo 2018 - Alessia aveva dodici quando le venne strappata la madre, entra per la prima volta in un’aula giudiziaria. Massimo ha gli stessi occhi azzurri, lo stesso viso intenso della mamma, che si apre solo per un attimo in un accenno di sorriso amaro quando il presidente Guido Piffer conferma la condanna all’ergastolo. Giuseppe Pegoraro è rimasto nel carcere di Pavia. Un’ora e diciotto minuti di camera di consiglio sono sufficienti ai giudici della seconda Assise d’appello di Milano per decidere che l’ex vice comandante della polizia municipale di Cardano al Campo non merita le attenuanti generiche e merita invece il carcere a vita. Il 2 luglio 2013 Pegoraro si presenta in comune a Cardano. È spinto dal rancore per la conferma della sospensione per sei mesi dal servizio dopo una condanna per peculato. Irrompe nell’ufficio della sindaca Laura Prati. Qui esplode tre colpi di 7.65 contro il vicesindaco Costantino Iametti e subito altri tre con bersaglio la Prati. Ricoverata prima a Gallarate e poi a Varese, la donna muore il 22 luglio. Causa del decesso, secondo la sentenza d’Appello, la dissecazione dell’arteria cerebellare provocata dagli spari e dalla conseguente caduta sul pavimento.

Il 12 settembre dello scorso anno la Cassazione accoglie uno dei punti del ricorso del difensore di Pegoraro, Maria Grazia Senaldi, annulla la sentenza di secondo grado che ha ribadito l’ergastolo e rimanda all’appello milanese con l’indicazione che per il reato di omicidio volontario della Prati vengano applicate le attenuanti generiche. Questo perché la Suprema Corte ritiene che i colpi ricevuti non siano l’unica causa della morte, ma ci sia stato un concorso di cause, come una malformazione vascolare pregressa o un aneurisma. L’udienza è pervasa di emotività. Non esiste alcun supporto per le attenuanti generiche, sostiene, per l’accusa, l’avvocato generale Nunzia Gatto. Nel caso che l’indicazione della Suprema Corte venga ritenuta “cogente”, le generiche non devono essere equivalenti all’aggravante delle premeditazione, altrimenti, con qualche calcolo, si potrebbe immaginare Pegoraro fuori dalla cella fra cinque o sei anni.

«Le attenuanti generiche - scandisce l’avvocato Cesare Cicorella, parte civile per la famiglia della vittima - sarebbero un disastro in termini di giustizia. Quest’uomo non può pretenderle dopo avere aggredito la tranquilltà di un paese con modalità terroristiche». È finita. In questi anni non è venuta da Giuseppe Poliseno, Pino, il marito di Laura, una sola parola di rancore. Si sforza di trattenere la commozione. «Non odio quell’uomo perché non riesco, non sono mai riuscito a pensare a lui. Penso solo a Laura, a quello che ha sofferto». Anche Massimo, un futuro da magistrato, è pacato, misurato: «Era il minimo di giustizia che si poteva ottenere, anche se non mi ridarà mia madre». Costantino Iametti è alto, maestoso, un uomo semplice, cuore di vecchio socialista: «Un po’ di giustizia, un po’ di giustizia. Laura per me era una figlia. È un dolore che non passerà mai».

È finita o forse no. Il fratello e la sorella di Pegoraro si allontanano con l’avvocato Senaldi. Il legale preannuncia il ritorno in Cassazione. «Non ci possiamo fermare proprio adesso. Aspetto di leggere le motivazioni per capire perché certe evidenze sono finite sotto il tappeto e verificare i margini per un ricorso. Già il 5 luglio, tre giorni dopo il ferimento, la signora Prati soffre di rigurgito, di nausee, un campanello d’allarme che sta accadendo qualcosa di grave dal punto di vista neurologico. Non viene sottoposta alla total body, ma a quattro o cinque tac addominali. Quando la tac viene eseguita, a Varese, rivela un sospetto di un aneurisma o di una malformazione aortica. Ma ormai l’emorragia cerebrale è in corso».