Omicidio Macchi, lo sfogo di Binda: "Giustizia per Lidia"

Primo giorno da uomo libero dopo l'assoluzione in Appello. "Il diritto alla verità non è un innocente in carcere"

Stefano Binda assediato dai cronisti fuori dalla sua casa a Brebbia

Stefano Binda assediato dai cronisti fuori dalla sua casa a Brebbia

Brebbia (Varese), 26 luglio 2019 - «La famiglia Macchi ha il diritto di avere giustizia, non quello di pretenderla. Non si fa giustizia se non c’è verità. La verità è che io non c’entro». Stefano Binda il giorno dopo la sentenza dell’Assise d’appello milanese che ha cancellato la condanna all’ergastolo pronunciata nell’aprile di un anno fa dai giudici di primo grado, a Varese. L’arrivo in casa a Brebbia mercoledì sera, quando mancavano venti minuti alla mezzanotte, sulla Nissan Qashqai guidata dal un amico, scortato dalla sorella Patrizia che l’ha atteso per ore davanti al carcere di Busto Arsizio. L’abbraccio di mamma Mariuccia, che aveva fatto preparare dal nipote Jonathan lo striscione «Bentornato a casa», firmato con un cuore. La prima festa con un trancio di pizza al wurstel e una birra gelata. 

La prima notte, il primo risveglio da uomo libero, sgravato dalla terribile accusa di essere l’assassino di Lidia Macchi. Assolto con formula piena per non avere commesso il fatto. Scarcerazione «se non detenuto per altra causa» dopo tre anni e mezzo di detenzione. Ma non c’erano altre cause a trattenere in cella quest’uomo che ha alle spalle studi di liceo classico, una laurea di filosofia, anni in Comunione e Liberazione e una vita travagliata. 

La mattinata in giro per Brebbia, dopo avere lasciato un biglietto alla mamma giusto per informarla dei suoi spostamenti. In chiesa. I giornali. Il negozio di una vecchia amica. Un caffè al bar. Gli amici di «Magre sponde», l’associazione che in questi anni non ha mai smesso di sostenerlo, presenti anche ai processi . 

Ricompare prima di mezzogiorno. T-shirt grigia, calzoni corti, scarpette sportive. Un sacchetto giallo del supermercato. Una cartelletta con delle carte. Capelli chiari, rasati, il pizzetto sacrificato da tempo. Magrissimo, quasi diafano. Alla vista dei cronisti che lo attendono riuniti in crocchio esita per un attimo prima di avanzare.

Stefano Binda, come sta? «Ieri sera sono arrivato esausto. Ho ricevuto espressioni molto carine, anche applausi. Mi sono stati molto vicini. Non so come filtrassero le cose, ma ho sempre avuto un grande sostegno». Inizia un piccolo assedio sul cancello di casa. Binda parla a voce bassissima. «Guardate, non sono abituato a tutto questo, scusate».

Cos’ha fatto in queste prime ore di libertà? «Avevo dei debiti di gratitudine. Sono passato a ringraziare delle persone». 

Adesso la sua vita cambierà? «E’ l’occasione per cambiare».

Si sente in qualche modo vittima di una ingiustizia? «In più modi»,

Cosa vorrebbe dire alla famiglia Macchi? «Mi spiace profondamente. Fondamentalmente capisco. Veramente bisogna credere che è arrivata finalmente a fine. Avevano il diritto di credere. Hanno assolutamente il diritto di avere giustizia, ma non il diritto di pretenderla. Non si fa giustizia con qualcosa che non è la verità. Io non c’entro niente. Grazie, signori». 

Pare essere il congedo. Riesce a varcare il cancello. Si avvia lungo la scala. Invece si volta perché ha ancora qualcosa da dire: «Voi non sapete quante volte, in carcere, ho visto i servizi in televisione. Anche gli altri detenuti lo facevano. Voi fate un lavoro che è una grande responsabilità».

In casa lo aspettano la mamma e la sorella, in fibrillazione gioiosa da quando «Teti» è tornato a casa. Il bagaglio portato dal carcere di Busto Arsizio attende di essere disfatto: due borsoni stipati di libri, compagni durante la detenzione altri due con gli indumenti, gli effetti personali. Il 12 agosto Stefano Binda compirà 52 anni.