Busto Arsizio, (Varese), 11 febbraio 2014 - Antonino Cutrì ucciso dal fuoco amico. È l’ipotesi sulla quale lavora la Procura di Busto Arsizio che ha indagato per concorso in omicidio volontario cinque componenti del commando che lunedì 3 febbraio ha assaltato un furgone della polizia penitenziaria: Daniele, il minore dei fratelli Cutrì, Aristotele Buhne, Davide Cortesi, Danilo Grasso, Christian Lianza. L’assalto aveva ridato la libertà a Domenico Cutrì, mentre il fratello Antonino era stato ferito a morte. L’autopsia verrà eseguita oggi dal medico legale Luisa Andrello. Il pm Patrizia Zappatini ha disposto una consulenza balistica. Davanti al tribunale di Gallarate erano stati ritrovati 32 bossoli: 28 calibro 9 e 4 di 7.65. E intanto al tribunale di Busto Arsizio si è vista la mamma Maria Antonietta Lantone, dove il figlio Daniele affronta l’udienza di convalida del fermo. «Mimmo era tornato a Inveruno perché voleva vedere me — spiega la donna, accompagnata e tenuta per mano da un’amica —, suo padre e il fratello morto. Poi si sarebbe costituito».

«Lo ripeto — dice —: i miei figli non sono mafiosi, non hanno ucciso. Mimmo voleva rivedere noi e Nino. Non gli è stato possibile. Ma sono sicura che la sua idea era quella di andare all’obitorio da Nino, avrebbe trovato i carabinieri e sarebbe finita. Mimmo è morto dentro, come me. Però non è un criminale. È stato condannato ingiustamente all’ergastolo, sono pronta a portare le carte. Nino era convinto dell’innocenza del fratello e voleva fare un’azione clamorosa perché si parlasse del caso». Davanti al gip Luca Labianca, Daniele Cutrì sceglie il silezio. Dopo l’udienza di convalida, Carlotta Di Lauro, madre di un bambino di cinque anni e fidanzata del defunto Antonino Cutrì, va agli arresti domiciliari in casa dei genitori a Cuggiono. Il professor Carlo Taormina, suo difensore, attacca: «Ci sarebbe un’intercettazione da cui si deduce che si era a conoscenza che il giorno 3, a Gallarate, sarebbe sarebbe potuto succedere qualcosa».

Carlotta Di Lauro risponde, si difende. Sapeva da tre anni dell’ossessione di Nino di liberare il fratello, lo aveva dissuaso, soprattutto dal proposito di iscriversi a un corso per elicotteristi, ma la famiglia lo sosteneva. Aveva percepito qualcosa di un progetto durante il processo a Torino, mentre era all’oscuro dell’azione a Gallarate. Il villino-baita di Cellio, nel Vercellese, non era un covo, ma la casa scelta per abitarci con Nino e il figlio. Si erano trasferiti da una decina di giorni, dopo avere pagato due mensilità. «Va' su, io ti raggiungo», le aveva detto Nino nel primo pomeriggio di lunedì 3 febbraio. Invece si erano presentati Domenico e quelli del gruppo di fuoco. «Nino è stato ucciso e io sono braccato», le aveva detto Domenico, imponendole la sua presenza e quella degli altri. La ragazza e Luca Greco, bloccato con Domenico Cutrì a Inveruno, avevano noleggiato a Inveruno un furgone che aveva percorso 440 chilometri e non era stato restituito. «L’ho usato per il trasloco — si è difesa la Di Lauro —. Ho percorso 200 chilometri, degli altri 240 non so niente».