Trezzano sul Naviglio, 31 dicembre 2013 - Al civico 1 di via Boccaccio ieri è stato giorno di visite. Mentre Donatella, Gina e Stefania pulivano i pavimenti della loro ex fabbrica per il veglione di questa sera, Michele faceva gli onori di casa con tre signore bergamasche scese apposta a Trezzano sul Naviglio per scoprire chi sono «quelli della Ri-Maflow».

E bisogna davvero vederlo di persona, chi sono quelli della Ri-Maflow. Sentire il freddo, nonostante il sole, dentro quei 16mila metri quadrati di capannoni. E neanche questo basta, se non per intuire a mala pena la forza di questo gruppo di lavoratori che occupano e resistono. Sono una quindicina, reduci di un gruppo di 330 dipendenti, madri e padri di famiglia che non hanno abbandonato l’azienda che li ha abbandonati.

Con i macchinari volati in Polonia a febbraio insieme all’ultimo proprietario, hanno preso possesso dello stabilimento ora di Unicredit, creato una cooperativa e un’associazione, aperto i cancelli alla città e a un paio di persone senza più un tetto. Poi si sono rimboccati le maniche e hanno organizzato gli spazi: in un capannone ospitano il mercatino dell’usato, in un altro c’è il bar, in magazzino i prodotti del Gas e le arance di Sos Rosarno, quando serve gli spazi vengono dati in affitto.

«Non siamo né diventeremo un centro sociale — specifica Donatella Marzola, 47 anni di cui 16 in Maflow insieme al marito Giuseppe —. Tutto questo ci serve per guadagnare qualcosa e integrare la mobilità ma il nostro vero obiettivo è riattivare una vera produzione».

Non è un sogno, bensì un progetto: «Recupero Raee (rifiuti di apparecchiature elettriche ed elettroniche, ndr). Non è facile, servono delle autorizzazioni che non abbiamo, così come i fondi. Ma non lottiamo dal 2009, non abbiamo preso le botte dalla polizia mentre gli altri colleghi ci deridevano, per abbandonare proprio ora».

Donatella e Giuseppe rimangono in via Boccaccio, nel bene e nel male. Ma la crisi Maflow ha sfasciato famiglie. «Ho conosciuto qui mio marito — racconta la più giovane, Stefania Morone, 37 anni e 15 di fabbrica —. Poi lui ha trovato un altro lavoro, quando ancora si trovava. Ora viviamo insieme ma solo per ragioni economiche, non ha mai capito, e come lui i miei genitori, il motivo per cui io da qui non mi sposto: questa è la mia vita e loro sono la mia seconda famiglia».

Per il 2014 un unico desiderio: «Che ci arrivino i permessi e l’azienda prenda il volo grazie a commesse importanti, come quelle degli anni d’oro. Avevo un buono stipendio, mai avrei pensato di dover occupare la mia fabbrica. E a febbraio mi scade la mobilità». La voglia di rivincita è tanta. «Sono entrata nel 1992 — racconta la veterana Gina Iacovelli, separata, tre figli —, lavoravo nelle vasche prova. Ora faccio tutto quello che serve, in attesa che parta il progetto Raee». Non è facile: «A volte un po’ di sconforto c’è, ma la voglia di andare avanti è più forte». Per la causa Ri-Maflow c’è anche chi ha detto no a due lavori, «poi alla terza offerta ho accettato, stava diventando una barzelletta».

Stefano Quitadamo, 39 anni, in Maflow dal ’96, festeggia in questi giorni un anno di nuovo contratto alla Autosystem, un chilometro più in là. «Vengo qui a fare la pausa pranzo e dopo otto ore di lavoro faccio lo stesso, do una mano. Mia moglie lo capisce, per fortuna, ma non a tutti è andata così bene».
valentina.bertuccio@ilgiorno.net