La leggenda Charlie Yelverton: "Kisonga? Il basket è intriso di razzismo"

Il grande campione sul giocatore di Buccinasco insultato perché nero: "Conosco l’odio per noi di colore: lo sport a volte diventa la valvola di sfogo degli idioti"

Charlie "Sax" Yelverton (NewPress)

Charlie "Sax" Yelverton (NewPress)

Varese, 26 febbraio 2018 - 1972. Portland. Trail Blazers e Phoenix Suns sono pronti a scendere sul parquet. The Star-Spangled Banner, l’inno nazionale, risuona sulle teste dei presenti. Tutti sono in piedi. Tutti tranne uno: Charlie “Sax” Yelverton. «Quella fu la mia personale protesta contro Nixon e le sue bugie sul Vietnam», racconta mentre contratta a un bar un panino con lo speck, dopo una sessione di registrazione. Lo abbiamo raggiunto per fargli commentare la storia di Joao Kisonga: il giocatore dei Bionics di Buccinasco insultato perché di colore. «Cagate razziste - detta lapidario -. Scrivi, scrivi. Non conosco il ragazzo ma l’odio per noi di colore, quello sì: l’ho provato sulla mia pelle. Italia, Usa, poco cambia: la storia del basket è scritta sul razzismo».

Charlie, il ’72 è stato l’anno del Watergate, ma anche l’anno del suo affronto a Nixon.

«Non mi alzai all’inno. Volevo protestare. Ero esasperato per la condizione disumana in cui si muovevano i giocatori di colore nell’Nba. E quella maledetta guerra in Vietnam fu come un detonatore. Nixon ci raccontava di voler ritirare le truppe, ma invece spedì laggiù a morire molti amici».

Da ieri a oggi poco è cambiato se parliamo di razzismo, non pensa?

«Ignoranza. Tanta, troppa ignoranza. Ecco tutto. Ricordo che quando vestivo la maglia della Emerson, gli ultras di Varese fischiarono un giocatore avversario gridandogli “negro di merda”. Li avevo alle mie spalle: allora mi girai di scatto, e senza pensarci troppo li guardai tendendo il braccio al cielo, come facevano Hitler e Mussolini. Era la mia risposta, la mia personale risposta».

Si inimicò la sua stessa tifoseria. La insultarono mai?

«Erano di estrema destra, fascisti. Odiavano chi è come me, ma personalmente non mi dissero mai nulla. Anche perché il loro odio non è mai stato personale, ma piuttosto rivolto a categorie. Come con gli ebrei».

Si sta riferendo alla famosa partita contro il Maccabi Telaviv, quella dello striscione: “10, 100, 1000 Mauthausen”?

«Era la semifinale di Coppa dei Campioni. Il Maccabi, quel Maccabi, era una grande squadra composta da grandi giocatori. E i nostri ultras li accolsero tirando un galletto in campo al loro ingresso. Alzarono le croci, e recitarono dei cori indicibili (tra questi, quello che faceva: «Adolf Hitler ce l’ha insegnato, uccidere gli ebrei non è reato», ndr). Come dicevo: lo sport, a volte, diventa la valvola di sfogo degli idioti».

L’odio è un sentimento forte, trasversale e facile da alimentare.

«Il razzismo è anche un fatto politico. E quando l’odio e la paura per il diverso diventano parte integrante dei discorsi dei politici allora non c’è scampo».

A proposito di politici: avrà sentito le parole di Attilio Fontana — tra l’altro un suo tifoso — sulla «razza bianca a rischio» per colpa dell’immigrazione?

«Non conosco nessun Fontana: io di tifosi razzisti non ne voglio. Con le sue parole, tra l’altro stupide, alimenta l’odio verso persone innocenti. Gente che, come me, è in Italia per vivere, mica per essere insultata per strada da un gruppo di ragazzetti ubriachi a cui le sue parole hanno acceso la miccia del risentimento e del disprezzo».