Ornella Vanoni: fiera della bellezza dei miei 87 anni

Elegante e ironica , la Vanoni al Vittoriale: Fresu come Chet Baker, mi commuove. Ma come si vestiva male...

Ornella Vanoni

Ornella Vanoni

Gardone Riviera (Brescia) - Di Ornella ce n’è una. E, come ricorda il suo ultimo album già dal titolo, continua a fare di questa sua unicità un’opera d’arte. Elegante, ironica, l’interprete de “L’appuntamento” rimane una delle donne più intelligenti che si siano trovate ad incrociare le strade della canzone, del teatro, del cinema. Venerdì prossimo è protagonista del Festival della Bellezza all’Arena del Vittoriale di Gardone Riviera assieme al drammaturgo Massimiliano Finazzer Flory. Al piano Fabio Valdemarin.

Signora, una donna passa spesso a nascondersi gli anni, poi però, quando diventano importanti come i suoi, li sfoggia con orgoglio. Buffo, no?

"Se li porti bene, puoi esserne fiera. E io lo sono al punto che, ad 87, vorrei cominciare a dire in giro di averne già 90. Solo per vedere l’effetto che fa".

Bé, a cento anni Leni Riefenstahl realizzò il suo ultimo documentario e sposò il suo collaboratore Horst Kettner, di 40 anni più giovane. È questo il senso ella vita?

"Fece bene. Anche se avrebbe potuto pensarci prima. Evidentemente confidava molto nella propria salute".

Lei ad 85 ha inciso “Unica”, il suo cinquantesimo disco.

"Quando me l’hanno proposto, per qualche tempo sono stata combattuta tra timore e gioia. Poi ha prevalso la gioia".

Carmen l’ha conosciuta a Leoncavallo.

"Mi avevano invitato e in un centro sociale ci avrei cantato volentieri, poi però l’hanno chiuso".

Qual è l’imbarazzo dietro il vanto di cui parla nella canzone?

"Pacifico mi conosce e sa che dietro al vanto non ho più le mie timidezze di ragazza, ma un po’ di timore sì".

Un rammarico?

"In ‘Ornella &…’, l’album con i grandi del jazz, avrei potuto cantare mille volte meglio, ma i tempi stretti d’incisione non me ne lasciarono modo. Grazie ad un’agenda fittissima di lavoro, ogni giorno incontravo, uno dietro l’altro, colossi come Herbie Hancock, Ron Carter, George Benson… sarebbe stato bello potersi godere di più la fortuna di averli in studio con me".

A Paoli un giorno Lester Young disse che suonare jazz è come “pisciare”, un bisogno naturale.

"Il jazz ti porta via. Ti senti libero, come se non avessi peso. Il pop, invece, è più quadrato. Come dicono gli americani ‘squared and not round’, squadrato e non tondo. ‘Argilla’ con Paolo Fresu, ad esempio, è stato un bell’incontro dei due mondi".

È, vero che al povero Fresu disse “ti vesti come uno appena uscito dal cassonetto”?

"Questa se l’è inventata lui. Sono stata tra i primissimi a conoscerlo ed apprezzarlo. Andai ad ascoltarlo al Tangram incuriosita da un trafiletto di giornale che parlava di questa ‘nuova tromba italiana’. Lo vidi arrivare sul palco con i pantaloni alla caviglia, un paio di scarpe strane, i capelli tenuti su da un elastico con una ciocca che gli cadeva di lato, e sedersi sulla seggiola arrotolato come un pitone".

Non proprio un colpo d’occhio entusiasmante.

"Già. Quando iniziò a suonare, però, mi resi conto che dopo Chet Baker avevo trovato un’altra tromba capace di commuovermi. Gli lasciai un biglietto col telefono, il giorno dopo venne a casa mia e ci dicemmo che se ci fosse stato feeling avremmo lavorato, altrimenti no. Siamo diventati molto amici e adoro sia sua moglie che suo figlio".