Caparezza, l'ottavo è il più ambizioso. "Exuvia? Mi sono liberato del Capa prima maniera"

Fellini, Kafka, le città fantasma e Stephen King: il nuovo album del rapper pugliese è un caleidoscopio di emozioni e suggestioni. "Fedez? Quello che ha detto sul palco del Primo Maggio è inattaccabile"

Caparezza

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Milano - Essere Caparezza. Per entrare nella sua testa come in quella di John Malkovich nel film di Spike Jones, l’idolo di Molfetta s’è costruito una foresta esplorabile in punta di mouse dove scoprire tra alberi, sentieri e rovi i segreti del nuovo album “Exuvia”. Un viaggio tra i mondi che orbitano attorno a queste 14 nuove canzoni (più 5 frammenti usati come note a margine) in bilico tra il Campana dei “Canti orfici” e il Leopardi delle “Operette morali” (“Dialogo della natura e di un islandese”), tra Franz Kafka, Uma Thurman, Federico Fellini e Stephen King. Tutti acquattati in quella selva oscura e “rezza” che si porta sulle spalle come disegnata dalla matita di Heinrich Hoffman.

L’exuvia è la muta dell’insetto, quel che rimane del suo corpo dopo il cambiamento. Qual è, dunque, l’esoscheletro che s’è lasciato alle spalle?

“Quello del Capa prima maniera. Fare rap a 47 anni può avere delle controindicazioni, quindi ero alla ricerca di canzoni che somigliassero alla mia età”.

Il nuovo progetto inizia lì dove finiva il precedente “Prisoner 709”?

“In un certo senso sì. Se quel disco parlava dei labirinti dell’intelletto, questo racconta la selva che ci si trova davanti una volta fuggiti dalla prigione mentale. La foresta è ovviamente metafora del limbo senza uscita in cui ci muoviamo tutti e che la pandemia ci ha reso ancora più evidente. Il luogo in cui l’uomo va a perdersi o a ritrovarsi, a meravigliarsi o a spaventarsi quando scendono le tenebre”.

Fra le autocitazioni di un pezzo emblematico come “Canthology” dice che per un artista il 2° album è più facile dell’8°. E dice pure di sentirsi come Guido Anselmi, lo svogliato protagonista dell’ “8½” felliniano, alle prese con un’opera che non riesce o che non vuole concludere. È stato così faticoso realizzare “Exuvia”?

“Probabilmente, il disco più difficile della mia carriera. Fra gli effetti collaterali dell’esperienza c’è la perdita del senso di meraviglia, che per un creativo significa togliere dal novero delle opzioni disponibili quelle già usate trovandosi così a seguire una strada così sempre più stretta. Questo da un lato è stimolante perché ti mette alla prova, ma dall’altro può anche portare dei momenti di sconforto legati a questa crescente difficoltà a trovare forme di comunicazione originali. Prima avevo una maschera dietro cui nascondermi, ora che provo a far prevalere la persona sul personaggio mi sento più nudo”.

Una canzone evoca pure Prypiat, la città fantasma nelle vicinanze della centrale di Chernobyl.

“Amo le città fantasma, a cominciare da Craco e altri borghi abbandonati. Ti danno la stessa sensazione di certe località balneari in inverno. Ai miei occhi Prypiat è un posto onirico, congelato della catastrofe. Un po’ come Pompei. La metafora è data dal fatto che realtà da cui sono circondato oggi è completamente diversa da quella in cui mi muovevo a vent’anni.  

A proposito di Fellini, perché dice che la sceneggiatura di “Il viaggio di G. Mastorna”, il più famoso tra film rimasti nel cassetto del maestro riminese, potrebbe essere lo spirito guida pure di “Exuvia”?

“Due anni fa mi sono imbattuto nella sceneggiatura di questa pellicola mai girata da Fellini, sembra per motivi scaramantici. La storia racconta, infatti, di un violoncellista che si ritrova in una città tedesca dove non riesce ad avere relazioni perché è morto, anche se non lo sa. Argomento che si vocifera il produttore De Laurentiis amasse poco, incappato pure nelle riserve del sensitivo Gustavo Rol, il quale consigliò vivamente l’amico Federico di lasciar perdere. Fatto sta che alla scelta di Milo Manara di trasformare quella sceneggiatura in fumetto, seguirono la malattia e la morte del regista. Diciamo che l’idea della selva, del luogo senza uscita raccontato dal disco, me l’ha data la claustrofobica vita ultraterrena di Mastorna”.   

Lei conosce bene quel palcoscenico, pensa che sabato scorso Fedez al Primo Maggio abbia fatto una cosa hip hop?

“Dire quello che pensi è sicuramente hip hop. E così esigere rispetto per le tue idee. D’altronde quello è un palco dove spesso gli artisti prendono posizione con messaggi pertinenti e ficcanti, anche se sostenuti talvolta con una certa retorica. Ma quello che ha detto Fedez è semplicemente inattaccabile”.

Andrea Spinelli