Torna Bruno Barbieri: "Alla ricerca del topper negli alberghi"

Lo chef da stasera su Tv8 riapre la sfida tra gli hotel dello Stivale

Bruno Barbieri

Bruno Barbieri

Mappazzone e topper le parole di riconoscimento. L’inconfondibile accento, la nota distintiva. E quel leggero eccesso di severità, il valore aggiunto capace di trasformarlo nel giudice più temuto. Già. Perché l’autorevolezza non si misura certo in centimetri. Fosse un indovinello, sarebbe fin troppo facile: siamo davanti a Bruno Barbieri, 59 anni di Medicina, alle porte di Bologna, cuoco e personaggio televisivo insignito di ben 7 stelle Michelin nel corso della sua carriera, già in onda con la decima edizione di MasterChef Italia targata Sky e ora in rampa di lancio con i nuovi episodi di Bruno Barbieri 4 Hotel prodotto da Banijay Italia e trasmesso, per la prima volta in chiaro, da questa sera in prima serata su Tv8.

Tanti impegni chef Barbieri, l’energia non le manca. «Perché faccio quello che mi piace: cibo e viaggi sono due ingredienti fondamentali nella mia vita». Una vita movimentata, che l’ha portata a visitare il mondo: i luoghi che le sono rimasti nel cuore? «L’Amazzonia, dormire nel cuore di una foresta, in un lodge immerso nella natura, è stata un’esperienza indimenticabile». Non mi dica che cercava il topper anche lì... «È vero, da quando ne parlo in tv , quel sottile materassino imbottito che va messo sopra al materasso è diventato famoso (ride, ndr): pensi che ogni volta che vado ospite da qualche amico, gliene ne porto uno in regalo. Si tratta di una coccola di origine anglosassone che ho conosciuto in Australia: 8 centimetri capaci di cambiarti la vita». È riuscito a trasformare in un must anche il termine mappazzone: come nasce? «Il mio accento dice da sé che sono nato in Emilia: cresciuto con i miei nonni sulle colline di Sasso Marconi, in un luogo incantato che la gente chiama Piccolo paradiso. È lì che ho scoperto il rispetto per il cibo e anche il suo vocabolario. Mappazzone è un termine dialettale bolognese che rende perfettamente l’idea di un piatto eccessivo e poco invitante». Dica le verità, quanto le piace leggere la paura negli occhi degli aspiranti chef o degli albergatori? «Torno ancora una volta alle mie origini: quando parlavo del rispetto del cibo, mi riferivo a una visione sana della cosa. Abitando in campagna non andavamo nei negozi a comprare le zucchine, ad esempio, ma nell’orto. Sapevamo che dietro a quel prodotto c’era tanta fatica, il lavoro di molti e che, per questo, andava rispettato. Conoscevi quello che avevi intorno e che ti dovevi guadagnare; pensi che il primo pesce di mare l’ho assaggiato da ragazzo, andando a trovare mio padre che lavorava in Spagna. Non era, come va di moda dire oggi, a chilometro zero. Per questo mi fa tanto arrabbiare l’approssimazione, lo sprecare. Cosa che purtroppo oggi per molti è una consuetudine». Ha dovuto imparare a essere severo o le viene spontaneo? «La severità è una caratteristica innata del mio carattere, data dall’essere una persona educata, responsabilizzata fin dalla più giovane età. Sono vissuto in un mondo nel quale il cibo ha il suo valore, non solo economico, e non va sprecato». Com’è balzato dalle colline bolognesi alle cucine stellate? «Come tutti, o forse ero un predestinato... chissà. Ho fatto la mia scuola alberghiera e ho capito subito che amavo viaggiare. Così me ne sono andato a vivere in giro per il mondo e, da allora, non mi sono fermato più. Per questo da un anno mi sento un leone in gabbia, bloccato da questo virus maledetto che sta mettendo in ginocchio il Paese e tante categorie, come ristoratori e albergatori, di cui mi occupo: sono felice che i programmi che faccio possano dare una mano. Sia chiaro, eh, resto comunque ottimista, convinto che il meglio debba ancora venire». È felice della sua vita? «Molto, voglio campare fino a 120 anni, lo dica pure a a tutti. Il mondo è pieno di luoghi da vedere, di viaggi da fare, di persone che vedo ancora conoscere: fra le prossime mete in agenda, non appena il Covid lo permetterà, c’è l’India» Abitualmente viaggia da solo? «Sì, solo e quasi senza bagagli: compro tutto lungo strada, come fanno i veri esploratori: amo mimetizzarmi, diventare parte integrante del luogo che sto visitando, fare miei gli odori, il cibo, i suoni. Solo frequentando le persone del luogo è possibile arrivare in zone incredibili, come quella volta che ho fatto il bagno sulle Cascate Vittoria, in Africa centrale; proprio dove finisce il corso dello Zambesi ci sono meravigliose piscine naturali in mezzo alla foresta». Ma non le dispiace un po’ non condividere tutta questa bellezza? «Beh, certamente non avere una famiglia mia, un po’ mi pesa. Ma è stata una scelta consapevole... Ho comunque mia madre Ornella, mia sorella, i miei nipoti: una di loro vive a Parigi, altra città che adoro, e insegna italiano e latino ai francesi. Non credo che avere legami mi avrebbe consentito di fare questa vita, che mi piace da matti». E l’amore? «Quello esiste, naturalmente, rapporti stabili e non, che vanno e vengono; alla fine ci può anche stare che uno non ce l’abbia, chi se ne frega. Quello che mi manca è un figlio. Mi conosco, non sarei mai riuscito a diventare Bruno Barbieri avendo una famiglia, perché una famiglia va seguita, una persona accanto va amata tutti i giorni, i figli vanno portati a messa la domenica, al doposcuola… Il mio lavoro non me lo avrebbe permesso e io non sarei mai stato capace di dire: ok, li affido a una tata bilingue». Più nuovi obiettivi che rimpianti, chef? «Certo! Soprattutto dopo aver scoperto, passati i 50 anni, che fuori dalla cucina esiste una vita, tanti altri interessi, tante passioni. Gioie che voglio coltivare ancora a lungo. Fino a 120 anni... L’ho già detto, no?».