Taino, il cuore, la musica, il futuro Viaggio nel mondo di "Ale" Covi

Migration

TAINO (Varese)

di Fabrizio Lucidi

Il suo sogno da atleta? "Da varesino, la Tre Valli". E il futuro? "Un bar o un ristorante per ciclisti nel mio paese, Taino". Se ora, per motivi professionali, Alessandro Covi, 23 anni, il puma di Taino, vive a Montecarlo, il suo cuore batte sempre per la sua terra. Alessandro, figlio di Marilisa Giucolsi che ha gareggiato in bici sfidando Imelda Chiappa, Roberta Bonanomi, Alessandra Cappellotto, nipote di Roberto Giucolsi, ex Pro, classe ’68, campione d’Italia dei dilettanti nel 1991 e vincitore del Giro d’Austria, la passione per il ciclismo l’ha respirata in casa. E a 6 anni è salito sulla prima bici. Da quel momento, non ne è sceso più. Dagli juniores ai Pro, ascesa e gavetta. Tanto che ancora oggi si definisce "un ciclista d’altri tempi", che nei primi tre anni di professionismo ha fatto di tutto, pur di aiutare la squadra. E ancora oggi, pur vincitore della tappa regina del Giro d’Italia, sulla Marmolada, tiene il profilo basso. Avanti e pedalare. "Io sono 100% istinto, ogni gara è come un libro, diviso in capitoli". Resta il ragazzo di sempre. "In allenamento, se posso ascolto musica, adoro i cantautori italiani. E so a memoria “Il ragazzo della via Gluck“ di Celentano". Proprio questa canzone gli risuonava nella testa, durante la fuga sulla Marmolada.

Che corridore sarà? Da tappa, da grandi giri o da classiche?

"Non sono, oggi, da grandi giri. Conosco i miei limiti, difficile anche arrivare tra i primi 10 al Giro, al Tour o alla Vuelta. Poi tutto dipende da come evolvo, fisicamente e mentalmente..."

È salito tra i Pro in una squadra straniera, l’emiratina Uae del re del Tour Pogačar. Si sente un cervello in fuga?

"È un dato di fatto che molti ciclisti giovani devono emigrare, come è un fatto che nel World tour non c’è una squadra italiana. Anche se io sono nella ex Lampre, la squadra più italiana di tutte, tra staff e dirigenti. Qua mi sento a casa...".

Nel ciclismo di oggi vincono molti più giovani rispetto a prima. Un bene o un male?

"Una volta i ragazzi erano solo al servizio dei capitani, erano vincolati. Io mi sento ciclista d’altri tempi, ma la gavetta mi ha insegnato tanto. Così ho colto le prime tre vittorie".

E lo spettacolo è aumentato.

"Su questo sono d’accordo, una volta a 100 km dall’arrivo ti addormentavi sul divano, io stesso lo facevo. Ora no...".

Cosa dice del suo compagno di team Tadej Pogačar?

"Abbiamo la stessa età e ci conosciamo da tantissimi anni. Da juniores veniva con la Slovenia a correre in Italia, allora alcune volte lo battevo, anche - sorride. L’ho sempre ammirato. Per me è un onore correre con lui: é rimasto il ragazzo di sempre, senza grilli per la testa. L’anno scorso eravamo alla Tre Valli e prima della gara ha detto a tutti: “Se arriviamo in gruppo, la volata la fa Ale“. Aveva appena vinto il secondo Tour de France...poi non è andata così perché sono rientrato all’ultimo e lui neppure ha potuto accorgersi del mio rientro. Comunque il suo messaggio è stato bellissimo, mi è rimasto nel cuore".

A scuola come andava?

"Ho un attestato professionale, ma quando la convivenza tra studi e ciclismo è diventata difficile, ho mollato i libri e finora - visti i risultati - è andata bene".

Quando ha capito che aveva la gamba per fare il Pro?

"Non c’è stato il momento rivelatore, però quando mi ha scelto un team Pro ho capito che andavo forte, potevo realizzare il mio sogno. E ai primi risultati, come il secondo posto al Giro dell’Appennino, ero convintissimo".

Le salite più belle della sua terra?

"Quelle intorno ai laghi, dove vado in barca o a fare il bagno o a prendere un aperitivo sul lungolago. Qua in provincia di Varese le ciclabili sono bellissime, ben fatte e sicure, con una vista incantevole. Abbiamo percorsi bellissimi sia per il ciclista della domenica, sia per chi vuol spingere di più e può scegliere tra Sacro Monte, Cuvignone e Campo dei Fiori..."

Cosa consiglia a un bimbo che sogna di diventare ciclista?

"Di salire in bici e divertirsi. Io stesso finché ho potuto ho fatto la vita di un ragazzo: spingevo al massimo in bici, ma appena potevo mi divertivo. Senza fissarsi troppo sul ciclismo. Diventato Pro, è scattato qualcosa, i sacrifici sono aumentati".