L’amore, il lavoro e l’ecologia secondo Chiara

L’intellettuale simbolo di Varese si raccontò in un’intervista al Giorno: "I giovani di oggi? Come quelli dei miei tempi. Con più paura"

In un romanzo che uscirà nella primavera dell’81, "Vedrò Singapore?", Piero Chiara racconterà un periodo della sua giovinezza, dopo i vent’anni. Ma prima, a diciotto, chi era, che cosa faceva? "Quello che un uomo non ha capito a quell’età — dice lo scrittore — non lo capirà mai più. Quello che imparerà dopo non sarà che una piccola parte di lui stesso. La conquista del mondo comincia allora". A diciott’anni Chiara aveva già fatto "esperienze di lavoro", in Italia e in Francia. Era stato esattore di affitti a Nizza, aveva lavorato nelle cucine di un grande albergo di Lione, prima ancora era stato meccanico, fabbro, fotografo di laboratorio. Infine nel 1930-31... Racconti lei.

"A diciott’anni ero già tornato al mio paese, Luino, ed ero diventato una delle cariatidi del caffè, quello di cui ho tanto scritto nel “Piatto piange“ e in altri romanzi. Ha avuto molto peso, per me, quella vita. Al caffè potevo conoscere e studiare la diversa personalità della gente, vi incontravo uomini anziani o di mezza età con una grande esperienza alle spalle e che spesso avevano vissuto anni e anni all’estero. A Luino, paese di frontiera, c’erano persone abituate a cercar fortuna lontano, in America, in Indocina, in Russia... E io giravo intorno a questi personaggi, li ascoltavo, parlavo, sentivo le loro storie. Per me è stata veramente una scuola". A Luino continuò a lavorare? "No. Ero tornato con un po’ di soldi".

E studiava?

"Nemmeno. Odiavo lo studio. Lo odiavo perché era costrizione... Piuttosto giocavo a carte, correvo dietro a qualche ragazza... Facevo vita di paese, la vita del vitellone. I miei genitori cercavano di collocarmi di qui, di lì, di spingermi ancora agli studi, ma io mi ero adagiato in quella esistenza comoda e pigra".

Che cosa speravano per lei i suoi genitori?

"Sperava che diventassi impiegato di banca. Che finissi dietro a uno sportello sicuro, per tutta la vita. A quei tempi il problema era avere una casa e un pezzo di pane, non quello di avere l’auto, fare vita brillante, andare alle Seychelles o alle isole Mauritius, sposare una donna indipendente, formare coppie libere e ottenere tutto quello che oggi stravolge la vita. Si seguiva uno schema antico: l’uomo, arrivato a una certa età, doveva trovarsi un lavoro, possibilmente un posto fisso (era il sogno!), magari diventare impiegato governativo: significava essere sicuri di mangiare per tutta la vita, perché quando finiva la carriera c’era la pensione...".

Ha mai avuto, a diciott’anni, una "crisi esistenziale"?

"È una crisi che hanno tutti, anche i giovani animali. Quando da oggetto di cura da parte di chi li ha generati, uomo o gatto, si ritrovano a dover vivere in proprio, senza più assistenza economica e affettiva, la crisi è inevitabile. Molti uccelli non riescono neppure a volare quando sono buttati fuori dal nido, e saltellano qua e là, magari finiscono in bocca al gatto o nelle mani di un bambino che li fa morire. È un passaggio pericoloso per tutti. Ma se per un animale la crisi è soltanto di sopravvivenza, un uomo deve anche affrontare problemi morali e intellettuali: nel suo caso la crisi è molto più profonda ed estesa, può talvolta sconvolgere la mente, sviarla da quegli schemi in cui potrebbe trovare una certa stabilità".

Lei aveva questi problemi?

"Anch’io, si capisce".

Quali speranze aveva?

"Mah, nessuna. Avevo fiducia nella vita. Non mi sono mai scoraggiato. Capivo che quelli erano solo stadi di passaggio, dopo sarei emerso. Sentivo di essere assistito da una certa fortuna. Da un momento all’altro avrei infilato la strada giusta".

Erano speranze condivise dai suoi coetanei?

"Tutti, più o meno, speravamo qualche cosa. Poi chi è morto in guerra, chi deportato, chi è morto di malattia. Chi però ha fatto fortuna! Uno dei miei compagni d’infanzia è diventato arcivescovo ed è nunzio apostolico in una capitale d’Oriente. Un altro è diventato un poeta celebre, Vittorio Sereni. Altri sono diventati professori d’università. Altri hanno fatto strada nel commercio o nell’industria. Un altro è rimasto per tutta la vita in piazza, con la sua edicola, a vendere i giornali. Un altro è diventato capostazione. Un altro è medico".

E le ragazze?

"Per la maggior parte si sono sposate, e anche bene. Qualcuna ha fatto fortuna. Una è finita nelle case di tolleranza, si è autopensionata: ha una casa, figli ormai grandi e dei nipoti. Anche lei, in un certo senso, ha fatto la sua strada".

Lei come si comportava con le ragazze?

"Ero chiuso, timido, un po’ impedito nel comunicare. Il corteggiamento mi era faticoso: avevo il timore di essere sgradito"(...).

C’era più rassegnazione fra voi giovani?

"Era fatale che il mondo avesse le sue difficoltà, che qualcheduno finisse male, che venisse una guerra dove si moriva come le mosche, ma noi accettavamo queste cose perché erano nella norma, nella logica della vita. Oggi i giovani - ma ormai anche gli anziani - vedono l’avvenire sotto una luce molto più fosca... Si pensi allo sviluppo dell’industria che ha portato alla degradazione dell’ambiente: allora chi si sarebbe mai sognato che un giorno sarebbe mancata l’acqua o che l’aria sarebbe diventata irrespirabile? E poi non c’erano, allora, minacce di guerre atomiche. Per morire in guerra bisognava avere una pallottola in testa, sennò si tornava a casa. Adesso, se ci fosse una guerra, si morirebbe anche restando in cantina in mezzo a due sacchi. È questo che angoscia i giovani e qui è l’unica differenza. L’avvenire sembra un muro di bronzo contro il quale si può perire".