Bellezza e forza del viaggio sempre oltre gli stereotipi

“Il Mediterraneo è...”. Righe su righe d’indecisione, cercando una definizione che eviti stereotipi

Milano, 29 settembre 2019 - “Il Mediterraneo è...”. Righe su righe d’indecisione, cercando una definizione che eviti stereotipi. Sino a dire che «tanto per cominciare è piccolissimo... un corso, che somiglia più di quanto possiate immaginare alla strada principale d’una città di provincia. Quando ci si incrocia, ci si saluta. Diciamo buon giorno a Pierre e a Emma, ad Akrim bey o a Pepito». Comincia così un intenso e divertente racconto di viaggio di Georges Simenon, “Il Mediterraneo in barca”, Adelphi, diario d’una crociera a bordo dell’Araldo, goletta di 30 metri. È il 1934. Si parte da Porquerolles, si toccano Genova, Napoli, Messina, Siracusa, Malta, Atene, Tunisi, Biserta, Cagliari e si scrivono reportage per la rivista Marianne. Cronache di luoghi e soprattutto di persone, di abitudini e cibi (delizioso l’elogio della cassata siciliana), si raccolgono storie d’un mare ricco di commerci e conflitti, memorie («È la Bibbia») e sapida umanità. E fascino: «L’aria ha la dolcezza dei fichi maturi». Il viaggio per mare. E l’approdo. Di cui scrive Cees Nooteboom in “533. Il libro dei giorni”, Iperborea, una meditazione laica sul tempo, le ombre del declino della vita e la preparazione alla sua fine. Quell’approdo è Minorca, l’isola minore delle Baleari, dove si arriva dopo un peregrinare lungo un’esistenza intensa di viaggi, scoperte, racconti. L’isola è luogo letterario, spazio speciale: favorisce il silenzio, il raccoglimento dei pensieri nell’osservazione affettuosa della natura, la memoria degli altri viaggi fertile di nuove e, chissà, ultime considerazioni: «Forse non hai mai capito i meccanismi essenziali del disastro, ed è tempo che ti chiuda nel tuo giardino mentre tutti gli altri procedono frenetici e inarrestabili in un mondo che è tutto un malinteso».

Così Nooteboom traccia bilanci, contemplando «il mare che ha tempo per pensare», i colori degli ibiscus e il verde cangiante dei cactus, piante speciali, spinose, ma con un cuore d’acqua che conserva l’essenziale per la vita. Dal mare ai monti. Con le pagine di “Il passo del vento”, un “sillabario alpino” scritto da Mauro Corona e Matteo Righetto, Mondadori. Si comincia con abete e alba, si finisce con zigolo e zuppa, che «deve essere fatta in casa e avere lo scopo di fare del bene», passando da disgelo, «un miracolo grande» del risveglio e dell’acqua che torna a scorrere, e poi da neve, risalita, roccia, speck e stambecco.Montagne come esperienza di vita, metafora d’un percorso di conoscenza del mondo e di rivalutazione del senso di essere persone, padri, figli, viaggiatori e lavoratori, passando per picchi e cadute, freddo gelido e tepore protettivo dei boschi, natura da preservare e valorizzare e senso speciale d’umanità sospesa tra radici e movimento: «Gli alberi sono come le persone e le foreste sono intere comunità». Storie e aneddoti, ricordi e illuminazioni. S’invecchia con lucidità: «Sono ancora vivo, sano, con qualche desiderio di montagne. Cammino, bevo, posso leggere, sono nonno. Che voglio, ancora?».