Un tris di indagini in giallo fra doppi giochi e malinconia

Manzini, Binda, Di Giovanni: tre autori per tre libri da leggere e scoprire

Milano, 30 dicembre 2018 - Indagare, tra solitudini e malinconie. E scoprire ancora una volta che la memoria è uno dei migliori strumenti per cercare di risolvere i misteri d’un delitto, d’una scomparsa. Lo sa bene Pietro Binda, protagonista de “Il fantasma del ponte di ferro” di Piero Colaprico, Rizzoli. Maresciallo dei carabinieri oramai in pensione, investigatore privato per residuo di passione, riceve a sorpresa la visita d’una bellissima modella russa in cerca della madre. E, dal cuore degli anni Ottanta, si ritrova catapultato in un vecchio caso del 1972, l’omicidio d’un magazziniere del Conservatorio, legato alla scomparsa d’una straordinaria violinista e a un traffico di gioielli. Tra ricordi e attualità, navigli nebbiosi e cabaret, osterie popolari e vanità della “Milano da bere”, Binda rischia d’essere travolto da doppi giochi di servizi segreti italiani, russi e israeliani, torbide storie d’amore, affaristi con finto senso dello Stato. E riesce a fare, nonostante tutto, chiarezza, sapendo, da uomo “saggio e giusto”, che “non sempre legge e giustizia coincidono”.

Analogo il clima che respira ad Aosta il vicequestore Rocco Schiavone, il protagonista dei romanzi di Antonio Manzini, nelle pagine di “Fate il vostro gioco”, Sellerio, alle prese con l’omicidio d’un ex dipendente del Casinò di Saint- Vincent. Qui è scomparsa la tradizionale eleganza delle grandi case da gioco, per cedere il passo alle miserie dell’azzardo compulsivo, alle passioni tristi dei pokeristi di basso profilo, alla dimensione più sciatta degli strozzini accaniti sui perdenti. Schiavone indaga con l’abituale spregiudicatezza, calpesta qualche regola di polizia e parecchio formalismo da buona educazione, maltratta le donne con cui va a letto, fa di tutto per mostrarsi come “un anti eroe”. E non nasconde una densa amarezza nel prendere atto, pure lui, che tra verità e giustizia corre talvolta un solco inquietante. Si avverta chiara l’eco del disincanto dolente di Dürrenmatt e del suo “requiem per il romanzo giallo”. Può esserci “giallo” senza un cadavere, un assassino, una traccia di sangue? Sì, sostiene Maurizio De Giovanni scrivendo “Vuoto”, Einaudi, una nuova avventura dei “bastardi di Pizzofalcone”. Qui non muore nessuno. Al massimo, c’è una professoressa di lettere scomparsa. Una collega preoccupata. Un marito, ricco industriale, che sostiene che la moglie se n’è andata chissà dove, di sua volontà. Niente delitto evidente, dunque. Ma un’indagine da fare comunque, pur se in modo informale, seguendo l’istinto per le storie non chiare. Un grande vuoto, tutt’attorno. Nella Napoli priva di pulsioni morali vitali. Nel cuore dei poliziotti. Nell’atmosfera sospesa d’un commissariato reso inquieto da un nuovo arrivo, la vice-commissario Elsa Martini, capelli rossi, occhi verdi, anima tempestosa. Come si riempie, quel vuoto che tocca tutti, come fosse una contagiosa malattia? 344 pagine magistrali, per spiegarlo.