La ricerca della felicità nonostante tutto

C’è un punto comune, trasversale alla letteratura contemporanea Usa: il crescente senso di solitudine, cui si cerca di dare una risposta

Milano, 22 settembre 2019 - Caleidoscopio americano. Carico di ombre, violenze, inquietudini. E d’una straordinaria forza nella ricerca di dignità, felicità, libertà, nonostante tutto. Erede di Harper Lee, Toni Morrison e James Baldwin, Colson Whitehead, premiato con il Pulitzer e il National Book Award per “La ferrovia sotterranea”, nelle pagine del suo nuovo intensissimo romanzo, “I ragazzi della Nickel”, Mondadori, porta i lettori nelle tensioni della Florida degli anni Sessanta, quando comincia a sgretolarsi la segregazione razziale, la popolazione nera guidata da Martin Luther King dà battaglia sui diritti civili e le reazioni razziste si rivelano feroci e prive di umanità.

Già l’incipit è straordinario: “Anche da morti, i ragazzi portavano guai. Il cimitero segreto si trovava nella parte settentrionale del campus...”. La Nickel è un riformatorio. E il protagonista, Elwood Curtis, ragazzino di intelligenza pronta, carattere tranquillo e forte senso della propria dignità, ci finisce per caso e per errore, solo perché ha accettato un passaggio d’uno sconosciuto, su un’auto rubata. Sta andando al primo giorno di lezione al college, finisce in un inferno di soprusi e violenze. Whitehead sceglie una lingua scabra, severa, per raccontare quell’inferno. Sino alle pagine delle morti malamente occultate, senza alcun rispetto, lì, nel cimitero sulla collina. È fiction, di grandissimo impatto emotivo, costruita come una cronaca essenziale. E svela la realtà del cuore di tenebra americano con una forza che toglie il fiato. Anche JesmynWard sa usare con maestria parole e ritmo di scrittura. Dopo “Salvare le ossa”, la scrittrice, una delle migliori voci letterarie americane, torna a Bois Savage nel Mississipi delle origini con “Canta, spirito, canta”, NN Editore, National Book Award entrambi. Il protagonista, Jojo, ha tredici anni, nero, famiglia povera, una forza che deriva dall’orgoglio e dall’amore per le radici. Il viaggio per andare a riprendere il padre appena uscito di prigione si trasforma in un incubo. L’ombra violenta del razzismo, la fatica di farsi carico dei doveri da uomo, in un contesto ostile, drammatico. Il dolore piega.

Ma aiuta a crescere. C’è un punto comune, trasversale alla letteratura contemporanea Usa: il crescente senso di solitudine, cui si cerca di dare una risposta, tentando di non farsi travolgere dai sentimenti. Serve, semmai, raffreddarli, per avere tempo e distanza utili a una ricostruzione di sé. Ci prova la protagonista (il nome non si sa) di “Il mio anno di riposo e di oblio” di Ottessa Moshfegh, scegliendo, in una New York benestante e convulsa, una vera e propria “ibernazione narcotica” e lasciando che il tempo rimasto libero dal sonno insistente sia in gran parte occupato dalle conversazioni con una nota psicanalista. Dolore, nelle confessioni e nei ricordi. E ironia, come strumento essenziale per ridare misura alle cose. Far nulla? “Voglio solo prendermi un po’ di tempo per me stessa”. Per capire il senso della vita e non morire di frenetica inedia.