Quarant'anni dopo fra politica ed eredità

Aldo Moro, le Brigate Rosse egli Anni di piombo

Milano, 13 maggio 2018 - «Io ci sarò come un punto irriducibile di contestazione e alternativa». Sono parole di Aldo Moro. Una consapevolezza e una sorta di profezia. A quarant’anni dal sequestro e dall’assassinio per mano materiale delle Brigate Rosse e probabilmente per stimolo di altre presenze, italiane e internazionali, la sua voce continua a farsi sentire. E vale la pena ragionare su impegno politico ed eredità. Buoni libri aiutano.

Come “Un atomo di verità” di Marco Damilano, direttore de “L’Espresso”, Feltrinelli. Ovvero “Aldo Moro e la fine della politica in Italia”. Con quell’omicidio s’interrompe un generoso tentativo di rinnovamento politico, bloccato dall’immutabile permanenza della Dc al potere e del Pci all’opposizione, perché considerato troppo legato all’Urss e dunque “antisistema”. Moro, dialogando con il segretario comunista Berlinguer, aveva provato a cambiare il contesto. Ne ha pagato il prezzo, in un’Italia “dalla passionalità intensa e dalle strutture fragili”. Damilano mette insieme lettere dell’archivio personale di Moro (parecchie inedite), documenti processuali, discorsi pubblici. Sino alle riflessioni, proprio sulla Dc, alla vigilia del rapimento: «È la nostra flessibilità, più che il nostro potere, che ha salvato fin qui la democrazia italiana». Poi, si apre una lunga stagione di crisi, che ancora dura. Ce ne sono testimonianze importanti anche in “55 giorni. L’Italia senza Moro” di Stefano Massini, Il Mulino: una ricostruzione accurata di ciò che succede in quella drammatica primavera tra canzoni, film, spettacoli Tv, nuovi riti sociali. Ritratti d’inquietudine e trasformazione, mentre sul palcoscenico della politica si consuma una tragedia.

Gli “Anni di piombo” volgono comunque alla fine. La vita nazionale è zoppa e dolente. Ma continua. C’è un altro modo di rileggere le vicende del sequestro Moro. Ed è dedicare attenzioni alle immagini della prigionia e del dolore e al significato politico. Lo fa, con gran competenza di studioso dei linguaggi, Marco Belpoliti in “Da quella prigione - Moro, Warhol e le Brigate Rosse”, Guanda. Il punto di partenza: le foto polaroid scattate durante i giorni del sequestro dello statista nel “carcere del popolo”. Esaminandole nella loro brutale immediatezza, Belpoliti indaga sulla menomazione umana e la crudeltà del degrado d’un uomo potente con le pressioni e i ricatti sulla vita e la morte. In quegli anni, segnati dalle esperienze artistiche di AndyWarhol (che amava le polaroid), cambia la rappresentazione dei politici, che cominciano a usare il corpo come simbolo di dominio e successo. I brigatisti, nella tetra parodia giudiziaria, intendono umiliare Moro. Ottenendo però l’effetto opposto: «Fotografandolo come un re deposto, i brigatisti hanno umanizzato Aldo Moro, così che la sua immagine continua a interrogarci ancora oggi sul potere, sul terrorismo e sull’idea di un’utopia politica realizzata con il sangue»