Dieci anni di Pavè La rivoluzione dolce non dorme mai

Giovanni, Luca e Diego hanno inventato un format

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di Paolo Galliani

Non hanno mai amato la grancassa. Non è il loro stile. Vanitosi? Quando mai! Competitivi? Ancor meno. Originali, questo sì. Del resto, Giovanni Giberti, Luca Scanni e Diego Bamberghi avevano voluto distinguersi da tutti, 10 anni fa, puntando ad aprire una pasticceria che non ricordasse le altre già aperte a Milano, una panetteria che non fosse solo tale e una caffetteria lontana anni luce da quelle esistenti. Insomma, “Pavè”. Perché quel brand inventato in un giorno qualsiasi del 2011 pensando ai piccoli cubi di porfido di una strada del centro città (dove inizialmente avrebbero voluto aprire il loro locale), alla fine ha portato bene. Dove? Tra Buenos Aires e Vittor Pisani, esattamente in via Casati. E con tutta la carica, onirica e un po’ sovversiva, di tre amici, allora 29enni, diversi tra loro – Giovanni, pasticcere, Luca comunicatore con formazione giornalistica e Diego il pragmatico del gruppo con formazione amministrativa – ma con un pensiero condiviso: dare vita ad una bakery come quelle frequentate durante i loro viaggi nel mondo anglosassone. Atmosfera informale ma prodotti di qualità, colazioni lente, pranzi che sconfinano nella merenda, parte dolce ma anche salata e per gli ospiti, la possibilità di ascoltare buona musica e conoscere gente. Insomma, c’era l’idea. E nel 2012, la magia del debutto, condita con un po’ di azzardo. I soldi? Tutti impegnati nell’acquisto di macchinari per il laboratorio. E per il resto? Il sostegno dei parenti e la generosità degli amici. Sedie spiaiate? Benvenute. Tavolate che avrebbero costretto i clienti alla condivisione? Perché no. La veste grafica? Priva di corsivi, perfetta per comunicare una location non paludata dove però l’asticella dei lievitati fosse alta. Anzi, altissima.

E per finire, i tre moschettieri di via Casati, avevano pensato bene di tenere sui social un “diario di avvicinamento” all’avvio dell’attività. Con il risultato di creare un pubblico di simpatizzanti ancor prima di cominciare e di avere, poco dopo l’opening, gli occhi di tutti addosso, perfino quelli del New York Times che avrebbe indicato Pavè come un “must” di Milano. Certo, per le sue brioches; per le monoporzioni che avevano soppiantato i soliti mignon delle patisseries milanesi; e per il pane, con farine bio molite a pietra e lievito madre: il classico, l’artigianale e quello ai semi, senza dimenticare le versioni settimanali più goduriose. A cui aggiungere infusi e caffè, 100% Arabica, da una torrefazione meneghina. Il Covid? Ha picchiato duro. Ma la famiglia Pavé si è ingrandita. Dopo l’ammiraglia di via Casati, la gelateria di via Battisti, il Caffè Pavè in via della Commenda, un’altra gelateria in via Cadore, il “pub di quartiere” ancora in via Casati, al 24, e un analogo locale in Lorenteggio. Col laboratorio centralizzato a Turro a completare un format largamente emulato. E lo spirito un po’ garibaldino di 10 anni fa? Sempre lì. Ed è la forza di Pavè al di là della sua verve comunicativa. Luca lo ripete: "Siamo partiti in tre con il supporto di un’amica e l’aiuto di mezzo mondo perché i soldi non bastavano. Oggi gestiamo una macchina da 40 dipendenti. Ma io, Giovanni e Diego siamo rimasti quelli che eravamo". Esemplare lezione di psicologia sociale: non sentirsi il “centro del mondo” aiuta ad esserlo.