L'ultima intervista a Gianni Brera: "L'idillio della vecchiaia saggia è una balla"

Il giornalista si raccontò al collega Andrea Maietti due giorni prima dell'incidente: "La paura della morte? Non me ne frega niente. Chi lavora come me, muore con sollievo"

L'intervista a Brera uscì sul Giorno il 17 dicembre 1992
L'intervista a Brera uscì sul Giorno il 17 dicembre 1992

È un giovedì, il 17 dicembre 1992. Un appartamento al 2° piano di un vecchio stabile di Via Cesariano in Milano, a due passi dalla vecchia Arena. Una stanza tappezzata di quadri (Morlotti, Cassinari e, tra le altre, tele di Carlo Brera, 46 anni, il maggiore dei tre figli del Gioannbrerafuearlo). Un tavolo di legno antico, concavo d'anni e di storia. Una bottiglia appena stappata sul tavolo e tre bicchieri. Sono le quattro del pomeriggio.

El Gioânn ci aspetta (mi accompagna Valerio Sartorio, detto Clic, foto-poeta della Bassa). Ettore Gasperini editore, da Cagliari, vuole un libro-biografia di Brera, che ha pensato a me come autore. Mi aveva consacrato suo biografo ufficiale el Gioânn, una sera di quasi vent'anni fa, nella sua casa sul lago di Pusiano, mentre lo aiutavo a preparare un risotto secondo sua personalissima ricetta: «Ci sono più di mille cartelle di "Arcimatti" da rivisitare - mi disse - bisogna cavarne trecento buone per un libro da Longanesi: Oreste Del Buono ci è annegato e ha mollato i pappafichi. Te la senti di provarci, lodesan?». E io ci ho provato, ed è nato «l'Arcimatto» (Longanesi, 1978), con qualche scusa a Del Buono, che sarebbe stato ostetrico assai più autorevole.

Da allora l'idea di una biografia del Gioânn mi frullava nella testa. L'ho sempre scrollata via, come se portasse gramo. E ora mi ci costringe un editore sardo, figlio di un amico di Brera, e lui, el Gioânn, ne sembra lusingato: «Vuol fare un libro su di me, vuoi che mi dispiaccia? Comincia pure, professeur (mi chiama così, per via del mio mestiere di insegnante liceale a Lodi), ma bevete intanto: è Bonarda, non è niente di eccezionale, ma può andare...».

Devo prenderla da lontano, Gioânn. Cominciamo con le origini. Il tuo paese natio, San Zenone Po. L'hai chiamato Pianariva nei tuoi romanzi. Che cos'è? Mito della memoria?

Non pare particolarmente stimolato dalla domanda, El Gioânn: mi guarda da sopra gli occhiali calati sulla punta del naso, senza alzare di una virgola il tono basso, stanco, della voce irrochita e rotta da frequenti colpi di tosse: «Certo, è il luogo delle memorie. Ci torno a San. Ci vive mia sorella maestra, quella che mi ha costretto a studiare. Ma non è che vada in brodo di giuggiole. L'Olona, fiume madre, è ridotta a piscio di cavallo. Anche se l'infanzia non si cancella mai. Quando si nasce in riva a due fiumi. Il Po aveva per me il fascino dei grandi fiumi di Kipling; e l'Olona, allora, era verde e mite. Ma adesso non conosco più nessuno a quel paese: gli amici sono tutti emigrati. Restano i miei, al cimitero. Mia madre, che era povera, ha voluto la tomba di famiglia. È la sola grandigia che si sia consentita. Ha rovinato mio padre, perché è morta nel '42 e allora comprare dei marmi era duro, e mio padre ha voluto mantenere la parola».

Ma sei stato davvero povero, Gioânn?

«Povero, ma non nel senso di essere miserabile. Io pensavo addirittura di essere agiato, ho scoperto poi che la povertà era la mia. Quando ho scritto che mi lavavo a Natale e Pasqua, mia sorella si è incazzata. La realtà è quella, invece. Noi ci difendevamo dal freddo non lavandoci. In casa era riscaldata solo la cucina, perché c'era il fuoco della stufa di mio padre sarto: fatta di mattoni intonacati e legata col ramino. Le camere non erano riscaldate. Eppure, non si prendeva mai un raffreddore. Si passava indifferentemente dal freddo al caldo. Forse eravamo selezionati, ma un bell'aiuto ci veniva dalla sporcizia. Era già molto che avessimo la latrina: un chiosino non proprio lindo. Gli altri andavano nell'orto per i bisogni».

Tu hai parlato spesso di una nonna ungherese: chi era?

«Mia nonna materna. È nata a Budapest, nel 1856 mi pare. Quando c'è stata la guerra col Piemonte nel '59, nel successivo trattato di pace si consentiva ai sudditi di nascita italiana di tornare in patria. Mio bisnonno ha comprato un carrozzone come quelli degli zingari ed è tornato in Italia stabilendosi a Costa di San Zenone (oggi Costa de' Nobili). I bambini di San lo provocavano: gh'è i singul, gh'è i singul! Comunque io sono affezionato a questa mia nonna, perché mi teneva sulle ginocchia e poi perché mi ha ispirato la prima battuta della mia vita. Ero stato colto da difterite all'età di tre anni e pensavano che morissi. Pochi mesi prima era morto mio nonno materno e mia nonna, che era devotissima, un giorno mi venne vicino e mi disse: “Giuàni, Giuàni, t'vöi andà in paradis a truà el pa' Ngilin?”. E io le risposi: “"Vagh ti che t'se vegia'.”».

È nata all'oratorio la tua passione per il calcio?

«Dell'oratorio non ho un bel ricordo. Mio padre era socialista e ateo, mia madre invece era devota e non mi dava le cinque lire se non andavo in chiesa. Io ci andavo solo per giocare a pallone all'oratorio, ma i nostri campi preferiti erano i sabbiali del fiume. Giocavo centravanti ed ero Gesù Cristo per i miei compaesani. Ma non avrei potuto diventare un giocatore vero, perché non ero un atleta naturale, com'era invece mio padre che saltava più di sette metri in lungo. Mi sarei dovuto allenare troppo. E poi magnare e bere... Avevamo un concetto goliardico o bullesco del bere. Chi non beveva non era un vir, come chi non attraversava il Po a nuoto...».

Quando hai sentito la vocazione di scrivere?

«Sui tredici anni. Non sapevo ancora l'italiano, ma chissà perché pensavo che sarei diventato scrittore. Quando l'ho detto a due amici che pescavano sull'Olona m'han dato dello stronzo. Ho cominciato con delle poesie. Poi ho fatto il liceo scientifico, prima a Milano (al Vittorio Veneto) e poi a Pavia, perché a Milano mi distraevo col football. A Pavia il professor Bianchi era un mio mentore. Era bravo, aveva metodo. Io approfittavo della stia stima, studiavo pochissimo. Ero bravo, anche in disegno, ma se avessi chiesto a mio padre di fare il pittore mi avrebbe preso a calci. Non era mica fesso come me, che non ho potuto negare a mio figlio Carlo, che ha 46 anni, di farlo il pittore: ha cambiato cento stili. Dicono che sia bravo, ma deve fare il traduttore per vivere. Ha scritto in due mesi uno splendido romanzo per Longanesi, poi non ha più voluto saperne. Per questo io mi arrabbio». Trilla più volte il telefono: il figlio minore Franco («Fa il musicista - dice el Gioânn - sembra che sappia il fatto suo. Ha cominciato come giornalista, ma gli pareva di essere raccomandato, ha voluto seguire una strada sua. Paolo, dei miei tre figli è il più ambizioso. Lavora alla Fininvest e mi fa da agente»); poi una rivista che chiede i dati fiscali per il compenso di un articolo; qualcuno che vuole invitarlo a tenere una conferenza su «Equilibrio fisico e psichico». L'intervista procede a singhiozzo. Intanto la bottiglia di Bonarda è appena a un quarto dal collo. El Gioânn si indigna: «Perché non bevete, lodesan».

Parliamo di calcio, Gioânn. La tua polemica con Palumbo.

«Palumbo è arrivato al Corriere e immediatamente si è mosso sul piano critico come a Napoli, dove aveva contribuito a far retrocedere la squadra partenopea per tre o quattro volte. Lui voleva l'attacco, contro la natura dei napoletani, che non sono ai primi posti nelle classifiche del coraggio. Quando venne il Real di Di Stefano qui a Milano, il Milan perse quattro a due e lui imputò la sconfitta alla disposizione tattica di dirottare Mora su Di Stefano. Se avessimo giocato all'attacco, io reagii, avremmo perso quattro a zero: piantala Palumbo, questo non è posto per magliari! Lui mi ha aspettato al varco in tribuna a Brescia. Mi ha sorpreso con uno schiaffo a freddo. Gli ho dato due cazzotti sugli occhi e col terzo l'ho acculato. Lui si è rialzato e ha afferrato una sedia di ferro, ma era groggy. L'ho messo contro il muro: perdeva moccio e sangue e diceva - con coraggio devo ammettere - ti mangio, ti mangio. Poi è venuto qualcuno del Corriere a portarselo via e, mentre se ne andava, Ginetto ripeteva: te lo sei preso uno schiaffone».

Sei leghista Gioânn?

«Io sono contento che i lombardi abbiano cominciato ad alzar la testa, a non subire più. È venuto da me qualcuno della Lega a garantirmi un posto in parlamento. Gli ho ribattuto che io avevo un lavoro, ben pagato, e che bisognava garantirmi che non ci avrei perso nel cambio. Certo, a livello puramente teorico, mi piacerebbe dirigere un foglio tutto lombardo, "La voix du Nord". Ci chiamerei i migliori a lavorarci. Anche i terroni, purché la pensassero come noi».

E la letteratura? Sono otto anni, ormai, dal tuo ultimo romanzo.

«Ho in mente una storia fondata su un professore. Di storia, appunto. Uno che si mette a studiare l'ethnos degli italiani, soprattutto dei liguri. Vorrei scriverlo per una volta in lingua olonate».

Com'è la vita a settant'anni?

«È dura. Soprattutto il farewell to woman (addio alla donna). L'idillio della vecchiaia saggia è una balla. Si, non c'è più l'affanno del desiderio, ma ci sono le malinconie che ti vengono da questa assenza di desiderio. I rimpianti li hai. Poi ti rompi una spalla cadendo da una sedia a caccia, come è successo a me. Stavo ad aspettare i tordi e sono caduto all'indietro e non ho mollato il fucile: pensavo di ricevermi a sinistra come quando ero paracadutista a ventitré anni. Sono atterrato come un sacco di guano e ho capito che mi ero fratturato. La paura della morte? Non me ne frega niente. Chi lavora come me, muore con sollievo. Spero di morire rapidamente. In aereo, per esempio. Questo non toglie che quando vado in aereo possa pensare che magari è l'ultima. Avevo paura le prime volte di volare. Poi più niente. Ricordo certe bevute in aereo con Nicolò Carosio... Non c'è verso di proseguire in modo appena normale con l'intervista. Le interruzioni sono millanta (per usare un termine medievale caro alle cronache calcistiche di Brera). Ora la voce del Gioânn è anche più pigra dell'avvio. È stanco. e si vede. Si concede solo per cortesia.

Basta, Gioânn, grazie. Ci vediamo dopo le feste. Temo di avere appena cominciato.

«Come vuoi tu, professeur. Domani sera sarò dalle tue parti, a Maleo. So che non sarai dei nostri. Sei troppo morigerato, professeur. Come sta il vecchio Majett? Salutamelo, è un grand'uomo tuo padre: uno storione di dodici chili con il bilancione è roba da grandi pescatori. Mi raccomando: fa' un buon lavoro».

Fa buio su Milano quando lasciamo via Cesariano. Sartorio e io finiamo al Giambellino, invece che a Rogoredo, per prendere la via Emilia. Non solo per imbranatura di provinciali poco avvezzi al traffico metropolitano. Siamo sopraffatti dalla stessa emozione premonitrice di un paio d'anni fa, quando eravamo andati a far visita a Brera sul lago, il giorno del suo compleanno. Pioveva come il Giorno dei Morti, e el Gioânn ci indicava le piante del suo giardino: «Ognuna reca il nome di un amico – disse – così almeno loro non mi potranno tradire mai».