Per quale diavolo di squadra tifava Gianni Brera? (Qui vi diamo la risposta)

Ai cronisti lui rispondeva il Genoa, il "Vecchio balordo", ma la sua anima era forse divisa tra Inter e Milan

Per che squadra faceva il tifo Gianni Brera? Domanda oziosa, si direbbe, quando c’è da celebrare il più grande giornalista sportivo italiano di tutti i tempi. Scrittore, polemista, enogastronomo, onomaturgo e chi più ne ha più ne metta: davvero è di interesse sapere se il suo cuore palpitasse per questo o quell’altro club? E invece sì, perché nella mirabolante vicenda umana di Brera anche il dibattito da bar (posti seri, per altro, i bar) sul tifo è occasione per cogliere una fra le mille sfumature della sua personalità.

L’artificio rossoblù

Bassaiolo di San Zenone Po, Brera si reputava “padano”, ben prima che qualcuno facesse di un riferimento geografico una bandiera politica. Centro della sua attività lavorativa, culminata negli undici anni alla guida della redazione sportiva del Giorno, era Milano. Mai lisciò il pelo ai lettori. Anzi, sapeva essere scomodo e persino ispido. Comprendeva benissimo, però, che mostrare una simpatia anche meno che decisa per l’Inter o per il Milan, gli avrebbe potuto alienare l’apprezzamento di una buona fetta di pubblico.

Si inventò tifoso del Genoa, per poter scrivere di rossoneri e nerazzurri con maggiore libertà. Nient’altro che una bugia fin di bene. Come tante invenzioni, però, un fondo di verosimiglianza c’è. I rossoblù, all’epoca in cui Brera si faceva strada nel giornalismo, portavano già impresso a caldo sulle maglie l’aristocratico stigma di nobile decaduta, avendo vinto nove scudetti, l’ultimo dei quali, però, nella stagione 1923-24. Quale squadra poteva essere più adatta a uno storico del football come Brera, autore di una fondamentale Storia critica del calcio italiano?

 

Inter o Milan?

Era comunque Brera effettivamente affezionato al Grifone, tanto che coniò per lui l’epiteto di “Vecchio balordo” e custodì a lungo l’atto di fondazione del club nato come Genoa Cricket and Football club. L’esibito sostegno per i colori rossoblù non mise mai il silenziatore al tiremolla su quale club fosse realmente nel cuore del giornalista sanzenonese, nemmeno dopo la tragica scomparsa.

Si è fatta avanti una tesi salomonica, secondo la quale Inter e Milan si dividessero a metà le sue simpatie. Da storico capo della redazione sportiva del Giorno, del resto, Brera fu tra i cantori di una delle stagioni più rigogliose di Milano, illuminata dai successi dei suoi club calcistici e benedetta dal boom economico. Fra il 1956 e il 1967 l’Inter vinse tre scudetti, due Coppe dei campioni e due Coppe intercontinentali, mentre i cugini del Milan misero in bacheca tre scudetti e una Coppa dei campioni.

Anche prima e dopo la sua esperienza nel quotidiano fondato per volere di Enrico Mattei Brera scrisse di derby della Madonnina. E come. Nei suoi articoli seppe consegnare alla storia match pirotecnici (un entusiasmante Inter-Milan 6-5 del novembre 1949) allo stesso modo di sfide “tarate dalla broccaggine” (un tristo Milan-Inter 0-1 del marzo 1980, entrato nella storia solo per l’intitolazione di San Siro al Peppìn Meazza, giocatore preferito di Brera con Gigi Riva).

 

Tifo e stile di gioco

Non manca chi è convinto, in fondo, di una lieve preferenza per i colori nerazzurri. Fra i sostenitori di questa tesi, voce sicuramente autorevole è quella del cronista Gianni Mura, forse il più ispirato epigono breriano nell’età contemporanea. È questa una versione dei fatti che almeno un quarto di plausibilità ce l’ha. Più che per l’epiteto di Beneamata che Brera riservò all’Internazionale o per il rapporto complicato con l’Abatino Gianni Rivera, idolo incontrastato del popolo milanista, per una presunta maggiore inclinazione storica dei nerazzurri a prediligere un gioco speculativo (per non dire catenacciaro), votato alla difesa e a veloci ripartenze, modello considerato da Brera il migliore di tutti.

Fra gli undici da lui più elogiati spicca l’Inter dei primi anni ’50 guidata da Alfredo Foni, primo tecnico italiano a schierare il libero, ultimo baluardo della difesa ma anche battitore chiamato a rilanciare l’azione. A interpretare il nuovo ruolo fu il granitico friulano Ivano Blason. Questo il racconto breriano del modulo: «D’improvviso, parte il colpo di mortaio sparato da Blason: a 70 e più metri c’è poca gente. Gli spazi sono vasti: in quelli si ficcano trionfando i solisti dell’Inter, e sono gaudiosi sfracelli».

Tutto il contrario del Diavolo, anche in era pre-berlusconiana più portato a indulgere in un forcing arabescato, magari in attesa di un’alzata d’ingegno del Golden Boy o, prima, di Schiaffino. Epperò Brera mal sopportava lo stregonesco Helenio Herrera, artefice dei successi della Grande Inter, mentre era culo e camicia con Nereo Rocco, il ruvido Paròn che esaltò la metà rossonera di Milano negli anni ’60. Con lui Brera cementò un rapporto di fratellanza, forgiato sulle comuni origini contadine, il pensare in dialetto e l’amore per il vino.

Impossibile, quindi, incasellare la matrioska Brera, pur anche in una manifestazione viscerale come il tifo. A dimostrazione che stili di gioco, dinastie calcistiche, metodi di allenamento passano. Lui, invece, resta. Lassù. Pietra miliare del giornalismo italiano e mondiale.