Franco Brera: "Vi racconto mio padre Gioàn. L'Abatino? Non era Gianni Rivera"

Il figlio di Gianni Brera traccia un ritratto intimo del giornalista: "Coniò anche per mia madre un neologismo azzeccatissimo, in casa lei era la Professora"

«Ancora oggi lo chiamo Giovanni, ma era mio padre. E man mano che si va avanti con gli anniversari alla fine si esauriscono gli argomenti. O non si sa da dove iniziare. Ne abbiamo fatte tante di chiacchierate per ricordarlo...». Pausa. Occhi lucidi che a fatica nascondono la commozione. Franco Brera, classe 1951, il terzo dei figli - l’unico ancora vivente del giornalista, romanziere e pittore scomparso tragicamente trent’anni fa, fa emergere tutta l’intimità e immensa umanità quando si parla del papà nell’incontro “Gioan Brera fu Carlo”, organizzato dal Gruppo Lombardo Giornalisti Sportivi e dal Panathlon di Milano. Fra ricordi, aneddoti e retroscena.

Quando pensa a lui qual è l’immagine a cui è più legato?

«Un derby a San Siro in cui vinse il Milan di Sacchi. Con me allo stadio vennero anche i miei due gemelli. E il “Gioàn” era lì, nel cuore della tribuna stampa, elegantissimo dentro il suo bel cappotto, in un ambiente che lui adorava, con un’atmosfera bellissima. Gli si leggeva la felicità sul volto, per me era bellissimo guardarlo da lontano».

Che padre è stato Gianni Brera?

«Intanto è già una fortuna avere la possibilità di ricordarlo... Però a casa non lo si trovava mai, raramente lo incrociavamo a qualche pranzo o cena. Un’assenza giustificata dal fatto che aveva scelto di dedicarsi alla carriera per far stare meglio anche noi. Certo, oggi non sapremmo se approvare o meno quella scelta, ma in ogni caso lui faceva tutto per la famiglia. Era presente in altro modo, la sua “educazione” per noi è stata indiretta perché ci bastava guardarlo per apprendere. E comunque in casa era vietato parlare di calcio, avrebbe considerato la cosa come un’offesa personale».

Quindi vietati i dibattiti da salotto sull’“Abatino” Rivera o su “Rombo di Tuono” Gigi Riva o ancora su Puliciclone Paolino Pulici?

«No, nessun accenno. Anzi qui bisogna sfatare una volta per tutte un luogo comune: l’Abatino non è stato Gianni Rivera e neppure Livio Berruti, ma un vero abate e filoso dell’educazione, un pretino ecclesiastico di rilievo della nostra letteratura, e si chiamava Giuseppe Parini ed era di Milano. Per il resto io gli ho parlato di calcio solo una volta, chiedendogli spiegazioni sul suo atteggiamento verso Maradona. E sono rimasto dell’idea che gli piacesse tanto, perché arrivato al grande successo partendo dalla condizione di essere povero e figlio di poveri».

Poi c’era la sua compagna di una vita Rina, la vostra mamma...

«Mio padre coniò anche per lei un neologismo particolare e azzeccatissimo, in casa lei era la “Professora”. Donna molto colta, laureata in lettere, amatissima dagli studenti dei licei milanesi. Spesso mio padre le faceva leggere articoli e saggi prima di pubblicarli, era un confronto continuo. Ed era bello e divertente sentir dire da Gioan che mamma fra guerre e varie attività aveva scodellato 4 figli. Perché è giusto ricordarlo: il primo figlio morì che aveva sei mesi, nel ’44, quando mio padre era in guerra. Si chiamava Franco».

Di voi figli chi era quello che più somigliava a Gianni Brera?

«Probabilmente Carlo, straordinario narratore e traduttore di autori stranieri del calibro di Stephen King. E poi pittore e scultore molto quotato da Bolaffi e perfino compositore. A proposito, mi faccia dire una cosa...»

Prego, dica pure...

«Quando si parla di mio padre ogni tanto ci sono imprecisioni: quella legata all’Abatino è una, ma l’altro errore è legato all’Arena Civica: c’è scritto “Milano riconoscente al grande giornalista”. Ma io avrei aggiunto pittore. E poi fece anche tante caricature per gli amici...».

Chi erano gli amici di Gianni Brera?

«Intanto colleghi del Giorno come Mario Fossati, Pilade Del Buono, Giulio Signori. E poi lo scultore Carlo Mo e Ottavio Missoni».

Ci dica la verità: suo padre era migliore come giornalista o come narratore?

«Io l’ho sempre definito uno scrittore di razza. Coppi e il Diavolo è un grande romanzo, giusto per fare un esempio. Quanti ai neologismi non è stato detto tutto: la verità è che lui scriveva come una mitragliatrice, poi ad un certo punto s’interrompeva e inventava una parola. Catenaccio e contropiede sono le più celebri, ma qualcuno sa cosa vuol dire Ciurlina? È il nome che dava al vino leggero nel pavese».

Cosa potrebbe insegnare Gianni Brera alla gioventù di oggi?

«Èsempre stata una persona in grado di smuovere le coscienze, della serie: perché corri in mezzo al campo con le mutande? Il suo è un gioco dell’animo e non si fermava alle apparenze. Ma per lui la cosa più importante era il lavoro, e a tutti i ragazzi direbbe quello che ripeteva a noi: lavorate e fatelo con passione».