Gianni Brera fu il calcio e il calcio fu Gianni Brera: "Mistero senza fine bello"

Il sublime narratore sportivo scrisse le pagine più memorabili dello sport italiano, ne definì le parole e le consegnò alla Storia

Gianni Brera morì 19 dicembre 1992 in un incidente automobilistico
Gianni Brera morì 19 dicembre 1992 in un incidente automobilistico

«Mistero senza fine bello». Il calcio oggi si racconta in modo differente, ha mutato pelle e si è marezzato di tatuaggi, iper atletismi e spropositi economici. E ha padroni e commendatori venuti da lontano, specie dall’Oriente. Come i Re Magi. Ma sull’erba divisa in due – la partita, appunto – il gioco del pallone resta consimile a quello dell’aurea definizione di Gianni Brera, il più grande narratore sportivo italiano (isole comprese) del secolo scorso.

Il calcio è ancora un mistero spesso bello e quasi puro, senza scontati e generici riferimenti a certi conti societari, alla rutilante Era dei Procuratori e dei fondi di investimento. Il perdurante bel mistero sta nella testa, nei cuori e nei tendini di due drappelli contrapposti di esseri umani. Per tacer dell’arbitro. Con all’incrocio dei venti una sfera vagabonda che in certe pieghe dell’incontro sembra rotolare nella fisica quantistica, ai confini della realtà delle chiacchiere da bar e da Var. Si aggiunga, quanto basta, l’apporto del tifo invasivo, passionale per eccesso. Qualche volta o troppe volte.

Sono trent’anni che Brera se n’è andato in un altrove senza connessione Internet e dal quale negano si torni. Un frontale notturno se lo portò via, incolpevole, nelle brume della Bassa, su un fatale segmento d’asfalto, di ritorno da un cenacolo di amici. «Un colpo secco e via», come si augurava lui, ragionando sulla morte, da vivissimo, come scaramantica scelta del modo migliore di chiudere bottega.

Trent’anni sono una mezza vita. Le cose, specie quelle che contano poco ma alle quali diamo grande importanza, cambiano in fretta. E il tempo, questo eterno e incoerente Ballo Excelsior di atomi, comincia a disperdere, per saldo naturale, apostoli e discepoli. Anche gli orecchianti dello stile breriano fanno fatica a raccapezzarsi. Ma, a dispetto della cronologia avversa, si continua a ragionare di lui e non solo nel reparto giocattoli della vita.

Al calcio italiano Gioannbrerafucarlo – il suo poligramma più noto – ha regalato nei suoi ruggenti anni, un lessico familiare rinnovato e un vocabolario sorprendente. Ma molto, molto di più ha elargito Brera in campo aperto, dando un senso, storico e sociale alla vocazione tattica nostrana nel saperci difenderei e nel risorgere dalle Caporetto dell’esistenza.

Il dizionario breriano è un florilegio di parole vive, senza gromma né muffa, che noi vecchi scribi di sport e dintorni maneggiamo senza sforzo: usato sicuro. Parole come “libero”, “cursore”, “contropiede”, “melina” e millanta altre a tutt’oggi suonano familiari. Certo, ora tendono a prevalere altri lemmi, ma pochi presumono di fare, da impuniti, tabula rasa dei brerismi, come ninnoli di un polveroso tinello. Rinuncereste voi a un aggettivo immaginifico come “intramontabile”? È sempre farina del suo sacco. E chiamereste in altro modo l’“ammiraglia”, automobile di riferimento dei corridori ciclisti in un corsa? Non è una questione di gusti, è la parola che l’uso ha legittimato a essere la più adatta. E questo entusiasmo lessicale lussureggia dall’humus del lavoro quotidiano del grande giornalista: decine e decine di cartelle battute a scottadito sui secchi tasti della macchina per scrivere. Un lavoro «non d’artista, ma – distingueva lui, in umiltà – da mero artigiano».

Così Brera ci rimase male quando Umberto Eco lo definì «un Gadda spiegato al popolo». Il Nostro obiettò che un povero cristo, condannato a sfornare tot pagine quotidiane e in tempi risicati per furia di rotativa non può certo tornire e ornare la sua scrittura come un autore nelle pantofole del suo studio, come San Girolamo, senza l’assillo dell’orologio.

Dalla fucina di Brera sono nati anche termini che hanno avuto minore fortuna diffusoria, come “cachèttico” (deperito) e “bradipsìchico” (uno, in sostanza, che ragioni assai lento). Nello stile eroicomico breriano, però, non mancherà mai l’arrosto, la sostanza tecnica. Anche per questo il Maestro era e resta inimitabile. Come nelle fulminanti definizioni (Mariolino Corso, ribattezzato «participio passato del verbo correre» per non voler dannarsi troppo a faticare in campo, bastandogli la classe a chilometro zero), nella caustica serie degli “abatini” (dall’olimpionico Livio Berruti a Gianni Rivera) o nella onomastica da nativo americano come Rombo di Tuono: Gigi Riva da qui all’eternità.

Per quest’ultimo Brera aveva concepito in origine un altro soprannome: Re Brenno. Omaggio, in tempi poco sospetti, all’amata Lombardia e al suo variegato ethnos, dai Liguri ai Celti, dai Romani ai Longobardi. Questo fervore di parte era soprattutto una sàpida giostra un gioco letterario, pur nella sincera celebrazione del natio campanile, della domestica aiuola. Nel nostro mondo multietnico e multipolare – ma anche molto ipocrita nel fanatismo del politicamente corretto – l’etnologia di Brera rischia ai nostri giorni l’interdetto, il bando, la damnatio memoriae? Le ardue sentenze sono pertinenza dei posteri, che di volta in volta siamo noi e coloro che verranno dopo: tutti viaggiatori del tempo in un presente ora progressivo, ora regressivo.

Il calcio giocato nel nostro giardino litigioso ci è venuto dal mare. Come una spezia, come una pestilenza. In una città portuale, Genova, gli inglesi protervi e giramondo avevano esportato il verbo e le regole della pedata. Perché erano in possesso, secondo Brera, di quel surplus calorico che permetteva loro la dispersione di altre energie, oltre a quelle necessarie alla mera sopravvivenza.

Gli italiani, ancora segnati dalla fame atavica, non potevano giocare come i maestroni d’Oltremanica, offensivisti esuberanti, bensì sviluppare con profitto un calcio difensivista che avesse però esiti pungenti nel contropiede rapido e mirato. L’evoluzione del remoto catenaccio svizzero, il cosiddetto “verrou”, ai Mondiali francesi del 1938 aveva sancito la nascita funzionale di un difensore aggiunto, affrancato dalle corvé di marcatura (il libero, appunto): nei suoi più moderni sviluppi il catenaccio ebbe maestri tecnici in Nereo Rocco e Gipo Viani.

La Grande Inter di Angelo Moratti e di Helenio Herrera, con un calcio difensivista rivisitato, colse negli Anni Sessanta i più cospicui allori, in Italia e nel vasto mondo. Con la benedizione di Brera, cui capitarono momenti ed esiti alla Hemingway in... difesa del difensivismo. Come quando si scazzottò in tribuna stampa con il capo dello sport del Corriere della Sera, l’offensivista Gino Palumbo. Il difensivismo breriano non era un metodo di gioco da furbetti imbelli ancorché geniali, ma di gente con coraggio e, se possibile, con una certa prestanza.

Epigono del calcio all’italiana sarà Enzo Bearzot con la prodigiosa Italia campione del mondo nel 1982. Buffo però che proprio Brera, dopo l’avvio in sordina di Paolo Rossi e compagni, non desse molto credito a quella Nazionale, arrivando a dire che in caso di vittoria mondiale lui sarebbe andato scalzo in pellegrinaggio a un santuario lombardo. Così gli toccò di farlo davvero.

Ma il calcio stava già cambiando nei prodromi di un eclettismo offensivista e fisico. Il tutto frullato in una comunque provvida Babele di piote e di lingue, confuse e di nuovo chiare in un disegno globale almeno sulla carta. L’uomo che gioca cambia canovacci e modi, ma il suo cuore, sotteso tra stalle e stelle – e viceversa – resta il medesimo guazzabuglio.

Nel cammin di sua vita, Gianni Brera non giocò mai in difesa: fu paracadutista volontario in guerra e poi partigiano nella Resistenza. Il suo vanto di combattente? Quello di non avere mai ammazzato nessuno. Da giornalista aveva una forza trainante di quarantamila copie in più, come si stimava ai tempi in cui diresse la mitica redazione sportiva del Giorno (dal 1956 al 1967) più una breve coda alla metà del decennio seguente.

E qui sarebbe da raccontare l’influsso breriano su molti di noi, direttamente o per osmosi o per soave deriva gastronomica. Il rito della cena notturna, dopo le partite e le assillanti faccende redazionali, ci è sempre parso il modo migliore per onorare Gioannbrerafucarlo, gourmet della vita. Con impervia licenza del fegato, del colesterolo e della glicemia. Prosit ad infinitum, Maestro.

 

* * *

SPECIALE GIANNI BRERA / 30 ANNI

Direttrice QN: Agnese Pini

Condirettore QN: Piero Fachin

Vicedirettore Il Giorno: Armando Stella

Vicedirettore (online) Il Giorno: Giancarlo Ricci

Hanno contribuito: Enrico Camanzi, Vittorio Emiliani, Andrea Maietti, Giulio Mola, Gabriele Moroni, Claudio Negri, Mattia Todisco

Produzione multimediale: Arnaldo Liguori

Archivio: Stefano Passarelli

Video: Arnaldo Liguori

Illustrazioni: Arnaldo Liguori