Maurizio Folini, dalla Valtellina all'Himalaya per salvare vite in elicottero

Missioni pericolose: "Voli leggeri e ad alto rischio"

Maurizio Folini durante i voli e i soccorsi sulle vette dell’Himalaya

Maurizio Folini durante i voli e i soccorsi sulle vette dell’Himalaya

Chiuro (Sondrio), 24 settembre 2018 - Lassù, dove non osano nemmeno le aquile. A 7.000 metri d’altezza su un elicottero piccolo e leggero, per salvare vite. E per insegnare a salvarle. Maurizio Folini, 52 anni, valtellinese di Chiuro, è l’uomo dei soccorsi impossibili. Si spinge tra le imponenti vette dell’Himalaya per raggiungere alpinisti in difficoltà, sfida vento e neve per riportarli al campo base. E soprattutto, insegna la sua “arte elicotteristica” ai piloti nepalesi, contribuendo così a migliorare l’efficienza dei soccorsi locali.

«Sono andato là per la prima volta nel 2012 – racconta Folini, guida alpina e pilota di elicotteri che collabora con società di soccorso svizzere e italiane –, ci sono due periodi chiave che ruotano attorno a quattro mesi: aprile-maggio e ottobre-novembre, ovvero l’alta stagione turistica, quando c’è bisogno di trasportare le spedizioni da Katmandu all’Himalaya e ovviamente dell’attività di soccorso. Nel frattempo, mi dedico al training dei piloti locali, quelli più dotati che hanno acquisito una certa esperienza e sono pronti all’addestramento per diventare soccorritori in condizioni limite».

Proprio tra poche settimane Folini sarà di nuovo in partenza: una decina di giorni in Nepal per valutare i progressi di un elicotterista. «Effettuiamo voli tecnici di grande difficoltà per riuscire a portare soccorsi in situazioni impervie – spiega il pilota valtellinese –, fino a qualche anno fa in Himalaya gli elicotteri atterravano solamente su una piattaforma, oggi invece grazie alla tecnica del gancio baricentrico, in condizioni meteo stabili, possiamo calare un soccorritore in parete fino a 7.000 metri d’altezza». Praticamente poco sotto la cima dell’Everest, ma l’operazione è tutt’altro che semplice. «L’elicottero, un Airbus H125, deve essere il più leggero possibile – specifica Folini – dunque si vola soli, pilota e soccorritore, senza altri sedili e con il minimo di carburante».

E se insieme al pilota può esserci un solo soccorritore, questi non sarà il medico, ma lo sherpa. «Calare il medico in parete a quelle altezze, significa avere una seconda persona da salvare. Lo sherpa invece è veloce ad acclimatarsi in quota e, dopo aver recuperato l’alpinista, è in grado di tornare autonomamente al campo base, oppure di resistere finché non torniamo. Non a caso, prima ancora dei piloti, abbiamo istruito gli sherpa con le nozioni base di primo soccorso in modo da poterli utilizzare in queste operazioni». Acclimatamento, resistenza, preparazione: tutti concetti che bisogna sempre tenere ben presenti in Himalaya. «Durante un recupero cadavere sul monte Taksindu – racconta Folini – ho portato con me un pilota nepalese. A un certo punto è cambiato il tempo e non potevamo più scendere in elicottero: o tornavamo a piedi o facevamo bivacco a 5.900 metri, però lui non aveva il necessario né per l’una né per l’altra cosa. Ha ‘preso in prestito’ l’attrezzatura dell’alpinista morto che avevamo appena recuperato e con quella è riuscito a scendere al villaggio. È stata la sua salvezza».