I "Conti" tornano: il voto è vicino, ma la soluzione all'italiana è dietro l'angolo

L'esigua maggioranza impedirà di governare con efficacia. Ma tra la crisi e il voto, più che Draghi, c'è di mezzo il portafogli

La strada verso le urne sembra spianata, ma non per tutti

La strada verso le urne sembra spianata, ma non per tutti

Roma, 20 gennaio 2021 - I Conti tornano, era scritto, ma la maggioranza del premier resta oggettivamente appesa a un filo. O forse a esserlo è la spada di Damocle che il suo ex alleato Matteo (il secondo) gli ha appeso sulla testa. Fuor di metafora, il fantasma del voto per lui e per la sua coalizione appare dunque tutt’altro che scongiurato. Una fiducia rispetto alla quota minima di 151 con cinque soli voti di scarto (parte dai trasfughi e parte da senatori a vita) non può certo considerarsi un capitale solido. Ecco perché l’avvocato pugliese, prima ancora di salire al Colle oggi alle 18.30, si era già premurato di specificare, non senza realismo, che i casi sono due. O la maggioranza si consolida, Dio sa come, o lui abbandona la partita.  E anche in questo caso, la fantapolitica fa impallidire il fantacalcio. I rivali del premier, che però vedono come il fumo negli occhi sovranisti e populisti, per i quali urge il governo vada cambiato ma non consegnato alla destra, puntano su Mario Draghi. Un nome che non dispiace a chi abbia una forte vocazione europeista, memore della lunga e apprezzata conduzione al timone dell Bce. Draghi non solo sa parlare un inglese perfetto, a differenza di molti altri candidati a Palazzo Chigi, ma soprattutto mastica di dinamiche comunitarie e ha eccellenti rapporti con tutti, fuori dall’Italia. Piaceva anche alla destra, e questo potrebbe essere un grande vantaggio per lui, ma prima che si profilasse la possibilità del voto. Con le urne all’orizzonte, Salvini e Meloni non cederebbero mai il timone, destinato a chi, tra loro due, prenderà più voti. Nell’ipotesi Draghi, resta però un elemento chiave, e mica da poco: nessuno sa cosa ne pensi l’interessato. Nessuno ammette di averci parlato. E nessuno forse ha mai avuto davvero in testa l’idea di coinvolgerlo. Perché ciò avvenisse, in ogni caso, l’ex presidente della Bce dovrebbe avere dietro almeno una maggioranza di parlamentari, ma in questa assise a maggioranza M5S appare molto difficile che il partito anti-banche gli voglia mai offrire un supporto, tirandosi dietro l’ira di molti elettori. Un Conte dimissionario, dunque, con tutta probabilità aprirebbe le porte a uno scenario unico, il voto. Quanto agli esiti di una probabile consultazione elettorale, i sondaggi non lasciano grande spazio ai dubbi ed è piuttosto improbabile che nel giro di qualche mese le tendenze possano essere ribaltate. Lega e Fdi da soli insieme sembrano essere sopra il 40%. E con Fi, Udc e altri satelliti quota cinquanta è pressoché certa. In campo opposto, pur ipotizzando un bis dell’alleanza di governo, mancano almeno una decina di punti, anche per il reiterato frastagliarsi della sinistra in partitini, che insieme raggranellerebbero magari anche quel dieci per cento in più, ma che insieme non si metteranno mai. E Renzi? Dato oggi sotto il 3%, faticherebbe di parecchio a entrare con Iv in Parlamento. Rendendo ancora più enigmatica e inspiegabile, in termini di convenienza, la sua scelta. Altri scenari sono possibili, perché la politica rimane l’arte del possibile, ma sembrano remoti.  Teniamo però presente un’ultima variabile: con un parlamento dimezzato dopo il famoso referendum, in moltissimi non verranno nemmeno ricandidati. Questa la ragione per cui, in un sussulto all’italiana dell’ultima ora, più d’uno, soprattutto da chi annuserà la quasi certezza di non tornare a Montecitorio o a Palazzo Madama, potrebbe considerare che è meglio restare al suo posto sino a fine legislatura, anziché rinunciare a un lauto stipendio. Di qui, e probabilmente solo da qui, le ultime chance di evitare il voto.