Pavia, ex carabiniere accusato di omicidio: per l'accusa sequestrò e uccise commilitone

Incriminato per l’omicidio del 21enne Pier Paolo Minguzzi, studente universitario

Il procuratore capo di Ravenna: «L’omicidio scosse il Paese»

Il procuratore capo di Ravenna: «L’omicidio scosse il Paese»

Pavia, 20 luglio 2019 - C'è anche un carabiniere pavese – Orazio Tasca, 54 anni, da tempo residente in città – tra i destinatari dell’avviso l’avviso di chiusura indagine notificato ieri mattina dalla questura di Ravenna a tre persone per l’omicidio del 21enne Pier Paolo Minguzzi, studente universitario, rampollo di una famiglia di imprenditori di Alfonsine (Ravenna) e carabiniere di leva alla caserma di Mesola (Ferrara). Il giovane era stato sequestrato la notte del 21 aprile 1987 mentre stava rincasando, dopo avere riaccompagnato la fidanzata ed era stato ucciso probabilmente quasi subito. Nei giorni successivi la famiglia ricevette una richiesta di riscatto da 300 milioni di lire. Minguzzi fu trovato morto nel Po di Volano l’1 maggio dello stesso anno. La notifica è stata consegnata ieri nelle mani di due ex carabinieri all’epoca in servizio alla stazione di Alfonsine – appunto Orazio Tasca e Angelo Del Dotto, 56 anni, residente ad Ascoli Piceno – e dell’idraulico del posto, il 63enne Alfredo Tarroni.

Nell’inchiesta sul cold case, seguita dalla Squadra mobile ravennate e dello Sco di Roma, i tre devono rispondere di concorso in sequestro di persona a scopo di estorsione, omicidio pluriaggravato e occultamento di cadavere. Le aggravanti sono l’avere agito con crudeltà, abusando delle funzioni di carabinieri e in circostanze tali da ostacolare la privata difesa della vittima.

Il procuratore capo di Ravenna Alessandro Mancini assieme alla collega Marilù Gattelli ha già annunciato che chiederà per tutti e tre il rinvio a giudizio. Per un quarto indagato in seconda battuta, un ex carabiniere al tempo in servizio a Mesola c’è stato lo stralcio della posizione in vista di una probabile archiviazione. Mancini ha spiegato che il caso Minguzzi «è stato riaperto anche su richiesta della famiglia e le indagini hanno portato a nuovi elementi probatori e indiziari, oltre che a valorizzare quelli già in possesso».

Così ora «il quadro indiziario risulta solido. Un castello indiziario e probatorio – sottolinea il procuratore capo – che nasce da una costatazione di fondo: è impensabile che in un piccolo centro fiorente nel 1987 potessero operare più gruppi criminali». Infatti le indagini condotte sui pregiudicati e sorvegliati speciali dell’epoca non avevano dato frutti. Ora la procura, dopo l’udienza preliminare, si aspetta il rinvio a giudizio. «Una vicenda simile merita il processo – rimarca Macini – l’episodio infatti «scosse le coscienze di molti per la sua efferatezza». Per farlo annegare Minguzzi fu zavorrato con una grata di ferro di 16 chili. Il dirigente del Servizio centrale operativo, Alfredo Fabbrocini, esprime la sua «gioia professionale per un caso tra i più efferati a livello nazionale» su cui c’è stato «un notevole impegno».