Addio a Rognoni, 12 volte ministro A Pavia insegnò diritto processuale

Da titolare del Viminale firmò con Pio La Torre la legge che porta nel codice penale l’associazione mafiosa

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di Manuela Marziani

È stato uno dei politici più noti della seconda metà del Novecento, ministro per dodici volte e vicepresidente del Csm, ha retto il dicastero dell’Interno durante uno dei momenti molto difficili per l’Italia come gli anni di piombo. Virginio Rognoni, 98 anni, si è spento l’altra notte nella sua casa di Ca’ della Terra. Esponente di primo piano della Democrazia Cristiana, uomo della sinistra del partito, aveva aderito poi al Partito Democratico e divenendo vicepresidente del Csm. Nato a Corsico, in provincia di Milano il 5 agosto del 1944, studente del prestigioso collegio Ghislieri, dopo la laurea in giurisprudenza nel 1947 e l’esperienza da borsista alla Yale University, in Usa, ha intrapreso la carriera accademica, divenendo professore di istituzioni di diritto processuale a Pavia. Da titolare del Viminale ha firmato, con Pio La Torre, la legge 646 che porta nel codice penale il reato di ‘associazione mafiosa’ e, su indicazione di Falcone e Borsellino, ha introdotto la misura del sequestro dei beni per i mafiosi. Ministro di Grazia e giustizia nell’87, ministro della difesa nella stagione di Mani pulite, alla fine della prima repubblica, è stato tra i dodici saggi che hanno scritto il manifesto dell’Ulivo nel 2007, approdando infine nel Partito democratico. In occasione del 40° anniversario dalla legge 121 del 1981, che ha smilitarizzato la polizia dando vita a un corpo da una forte identità civile, votata al servizio della comunità, Rognoni aveva ricordato quel periodo. "Sono arrivato al Viminale appena dopo l’assassinio di Aldo Moro - aveva detto -, quando il presidente del Consiglio era prima Giulio Andreotti e poi Arnaldo Forlani. Allora in Italia vivevamo un lungo ‘68 con una carica di libertà e speranza, ma scarse conclusioni politiche. La riforma è arrivata in un Paese frastornato".

E, se i cittadini erano confusi e increduli di fronte a quanto era accaduto, nei palazzi romani si vivevano anche altri timori. "Era nato il movimento democratico dei poliziotti - ha proseguito il politico pavese - e al Viminale c’era preoccupazione timore per forme di un’eccessiva sindacalizzazione ordinaria degli agenti che volevano più libertà e pretendevano riforme". Comunque lo studio della riforma è proseguito e dallo "status militare" si è passati all’apertura al mondo sindacale e alla formazione di sindacati ad hoc, dall’avvento degli ispettori con mansioni investigative al coordinamento tecnico-operativo delle forze di polizia, dalla creazione dei ruoli tecnici e sanitari alla parità di genere, che garantì alle donne le stesse modalità di accesso e le medesime opportunità di carriera dei colleghi uomini, e molto altro ancora. "Abbiamo dovuto vincere le resistenze di un giornalista come Indro Montanelli - aveva aggiunto l’ex ministro - che godeva di un forte peso sull’opinione pubblica; secondo Montanelliil quale il Corpo, perdendo le stellette, avrebbe tradito la società italiana. Siamo riusciti a vincere quelle resistenze e ad approvare la riforma". Quarant’anni dopo, Virginio Rognoni si era detto soddisfatto del rinnovamento portato.

"La riforma - aveva proseguito l’onorevole Rognoni - ha previsto anche l’istituzione del comitato dell’ordine e della sicurezza pubblica presieduto dal prefetto, il quale può chiamare a parteciparvi esponenti dell’amministrazione dello Stato ed anche al quale partecipano tutte le forze di polizia e anche i magistrati. Questo è uno strumento importante nelle mani di coloro che sul territorio rappresentano lo Stato, perché sente il polso la "pancia" del Paese e può regolarsi di conseguenza". Il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella un anno fa aveva commentato che la riforma "ha contribuito a ribaltare l’immagine antica di un corpo dello Stato vocato a funzioni puramente repressive". "Per come è stata pensata e scritta - aveva concluso l’ex ministro -– è stata un successo. Mi ha fatto piacere sapere che il capo della polizia Lamberto Giannini abbia commentato di sentirsi figlio di quella riforma".