{{IMG_SX}}Monza, 8 ottobre 2009 - "Neppure nelle favole più raccapriccianti l’orco che mangia i bambini viene raffigurato con tinte così fosche e sinistre quale Caporali nella sentenza, ingiustamente disprezzato e svillaneggiato".  

 

Queste le parole di Raffaele Della Valle e Donatella Rapetti, gli avvocati di Nazareno Caporali, condannato lo scorso gennaio dalla Corte di Assise di Monza all’ergastolo per omicidio volontario premeditato nei confronti della moglie, Lorena Radice.

 

Nelle 230 pagine del ricorso in appello presentato ieri in tribunale a Monza, gli avvocati invece, parlano di suicidio e "scagionano" l'uomo dall'accusa di essere "un mostro": "Proprio questa sfacciata ed assurda malevolenza nei suoi confronti tradisce quel pregiudizio di fondo che ha accompagnato l’imputato sin dall’inizio del procedimento e che ha finito, come era prevedibile, per alterare la percezione di quella realtà che emerge, con forza e chiarezza, dalle carte processuali".

 

"Un approccio sereno al caso - proseguono i legali nel ricorso - deve far ammettere che non vi è nessun elemento tecnico che sia in minimo contrasto con la modalità suicida mediante soffocazione con sacchetto di plastica che, al contrario, è in assoluta l’unica probabile sulla scorta di tutti gli elementi tecnici di giudizio. Non vi è infatti nessun dato che, valutato in modo sereno, indichi in termini logici, scientifici e fattuali una modalità omicida".

 

Sono da poco passate le 8 del 26 dicembre del 2006 quando al 118 di Monza arriva la telefonata con la richiesta di soccorso per una donna che abita in via Bettola 16. È il primogenito di Lorena Radice e Nazareno Caporali, 10 anni, andato la mattina di Santo Stefano nella camera matrimoniale dalla mamma che non si alzava, a fare la macabra scoperta della donna sdraiata nel suo letto, con la camicia da notte, il piumino rimboccato, un sacchetto di plastica della spesa stretto sul viso e legato intorno al collo con due elastici.

 

Ai militari intervenuti appare la scena di un suicidio. Ma dai primi rilievi e in seguito agli accertamenti degli esperti del Reparto Investigazioni Scientifiche di Parma emergono i primi sospetti.

 

La Procura di Monza apre un fascicolo per omicidio preterintenzionale dopo che Nazareno Caporali ammette di avere avuto un violento litigio la notte di Natale con la moglie. Dopo l’autopsia sul corpo di Lorena Radice, che segnala strane ecchimosi intorno alla bocca, l’ipotesi di reato diventa omicidio volontario

 

"Ergastolo e decadenza dalla potestà di genitore", è la sentenza decisa a gennaio dalla Corte di Assise di Monza per Nazareno Caporali. La condanna alla pena massima era stata chiesta al processo, durato 9 mesi, dai pubblici ministeri Salvatore Bellomo e Flaminio Forieri, secondo cui il broker, dopo che a Natale la moglie ha scoperto la sua relazione extraconiugale, l’ha soffocata con un cuscino e poi ha inscenato il suicidio come aveva visto nei siti sadomaso su Internet.

 

I giudici hanno condannato l’imputato, detenuto in carcere dal 25 luglio del 2007, anche al risarcimento dei danni con una provvisionale di 300mila euro ciascuno ai 2 figli della coppia che ora hanno 12 e 9 anni, rappresentati dall’avvocato del Comune di Monza tutore dei bambini, Monica Gnesi e di 150mila euro ciascuno ai genitori di Lorena, figlia unica di Alfredo Radice e Luisa Padovani, che si sono costituiti parti civili con l’avvocato Luigi Peronetti.

 

Ieri però, il ricorso presentato dagli avvocati di Caporali ha "ribaltato" la posizione dell'uomo: "Il giudizio sull’uomo Nazareno, si erige su un evidente pregiudizio e sull’intima ma fallace intuizione dei Primi Giudicanti, verosimilmente suggestionati dalle pietose, seppur comprensibili, menzogne dei genitori della vittima, che considerano il suicidio della figlia un marchio ancora peggiore dell’omicidio per mano dell’imputato".

 

"Invece Caporali - continuano gli avvocati - ha voluto da subito raccontare agli inquirenti la verità sulla sua relazione con Lorena e la verità su quanto successo quella notte. Nelle sue parole troviamo sempre fiducia nella giustizia e mai una protesta o un’imprecazione per quello che talvolta, nel corso del processo, è stato costretto ad udire".

 

"A sostenerlo - conclude così il ricorso - la forza della propria innocenza che, nonostante l’infausto esito, sorregge ancora l’affidamento in un Giudice di Appello che sappia leggere le carte processuali con la giusta serenità ed obiettività".