Studenti suicidi a Monza, il professore: ascoltiamo i segnali dei nostri ragazzi

Raffaele Mantegazza, docente di pedagogia, si interroga sulle inquietudini del mondo degli adolescenti dopo la tragedia del Frisi

Il professor Raffaele Mantegazza

Il professor Raffaele Mantegazza

Monza, 13 febbraio 20120 -  «Dobbiamo affinare la nostra capacità di ascolto, che non è solo verbale". Il professor Raffaele Mantegazza, brianzolo residente ad Arcore, docente di Pedagogia all’Università Bicocca e autore di “Finire un po’ prima. Considerazioni pedagogiche sul suicidio“, non smette mai di parlare con i ragazzi. Abbiamo parlato con lui in seguito al dramma che in una manciata di giorni ha travolto due famiglie e un’intera comunità scolastica, quella del liceo scientifico Frisi. Due ragazzi del quinto anno hanno deciso di togliersi la vita, e ora studenti, professori, padri e madri si interrogano con angoscia.

Professore, nel fisiologico sentirsi soli, perdenti e incompresi degli adolescenti, come può maturare l’idea di un gesto estremo? "Anzitutto occorre dire che al fondo di ogni gesto di questo tipo c’è un grande mistero e la risposta alla domanda “perché?“ Rischia di essere sempre insufficiente e parziale. Oggi uno dei problemi è proprio il fatto che l’essere perdenti e soli viene considerato un elemento di debolezza di cui vergognarsi piuttosto che un fattore fisiologico. Questo porta il ragazzo a sentirsi sbagliato e a non avere la forza di accettare le proprie crisi e i propri momenti di sconforto. Credo che la tentazione del suicidio abbia sfiorato prima o poi tutti i ragazzi e anche molti adulti. È difficile capire cosa porti a compiere il passo decisivo, dalla ideazione alla realizzazione. Si tratta di superare una barriera irreversibile, gettarsi a occhi chiusi in braccio a quel nulla che si considera preferibile al qualcosa della vita. Manca in quel momento ogni aggancio, ogni pretesto per vivere, anche quello più banale che manterrebbe attaccati all’esistenza". Ci sono e si possono cogliere segnali di un proposito così drammatico? "Purtroppo no, e questo è uno dei problemi perché molto spesso chi prende questa decisione (magari programmando il gesto con anticipo) viene descritto come sereno nei giorni precedenti; paradossalmente proprio il fatto di avere deciso un gesto così estremo fa credere che tutti i problemi siano risolti e dunque porta a una apparente tranquillità. L’unica prevenzione possibile è permettere ai ragazzi di essere fragili, di non vergognarsi della solitudine e di confidarsi, parlare, non tenere sempre nascosti i propri sentimenti". Ci sono ambienti più fertili in cui può maturale questa idea tra gli adolescenti? "Sicuramente gli ambienti iper-competitivi nei quali i ragazzi non sono accettati per quello che sono, ma giudicati (e giudicare è diverso dal valutare) per quello che fanno, messi continuamente a confronto tra loro, spronati non a dare il proprio meglio ma ad adattarsi a una griglia di valutazione e di giudizio che viene dall’esterno, spesso neanche dalla scuola ma dal mercato. Se la vita deve essere una folle corsa nella quale conta solo chi arriva al primo posto, già il secondo classificato rischia di sentirsi inutile e perdente. La sofferenza dei ragazzi, davvero dolorosa per chi vive con loro e li ama, è ignorata troppo spesso dal mondo adulto, e questo porta a una solitudine per riempire la quale i coetanei non bastano più". Cosa possono fare genitori e insegnanti? "Anzitutto smetterla di giudicare i ragazzi secondo criteri di produttività e competizione e iniziare a comunicare loro che nessuno può permettersi di dare giudizi sulla loro persona; altro è valutare una performance, dando restituzioni di realtà anche sugli errori, altro è svalutare la persona. Occorre poi affinare la capacità di ascolto che ovviamente non è solo verbale (soprattutto per gli adolescenti) ma è capacità di tradurre il linguaggio del corpo (un ragazzo che inizia a trascurarsi sta già dando un segnale), di osservare i comportamenti quotidiani e soprattutto di accogliere i silenzi che sono la prima e più importante forma di comunicazione degli adolescenti. Infine, e forse questo è l’aspetto più importante, avere il coraggio di parlare con i ragazzi del Grande Rimosso: la morte. Se nascondiamo la morte, se ce ne vergogniamo, se non ne parliamo mai, ne facciamo un mito che diventa a volte anche desiderabile, e proprio gli adolescenti che stanno affrontando una nuova nascita sociale, hanno bisogno fisologico di una morte simbolica e culturale che li metta al riparo dalla morte reale, almeno da quella scelta".