"Ho visto in faccia il diavolo! Padrino della ’ndrangheta a 38 anni"

Antonino Belnome, ex boss della Locale di Giussano e primo pentito della Brianza, si racconta: in un’intervista col regista seregnese MarcoTagliabue le parole che svelano i segreti delle cosche

Antonino Belnome in controluce nella docufiction

Antonino Belnome in controluce nella docufiction

MONZA, 19 gennaio 2022 "Io ho fatto cose per le quali una persona normale non ci dormirebbe la notte. Ero arrivato al punto di decidere chi doveva vivere e chi doveva morire. Devi andare all’inferno e tornare indietro. Io il diavolo l’ho visto in faccia parecchie volte! E sono tornato. E la ‘ndrangheta mi ha aspettato a braccia aperte. Ero già un padrino a 38 anni". Queste e altre cose ha detto Antonino Belnome in un’intervista in esclusiva per un docufilm per la tv svizzera (Rsi) concessa al regista di origine brianzola (è di Seregno!) Marco Tagliabue, che con grande fatica e un’epidemia di mezzo è riuscito a intervistare l’allora giovane, rampante padrino della ‘ndrangheta. Il primo pentito di ‘ndrangheta del territorio brianzolo. Quello che, ancora giovanissimo, era diventato il boss della Locale di Giussano macchiandosi di diversi reati: primo fra tutti l’omicidio di Carmelo Novella, il boss secessionista, “fatto fuori” con l’aiuto del compare Michael Panajia in un bar di San Vittore Olona il 14 luglio del 2008. Novella era stato stato condannato a morte dalla casa madre in Calabria perché aveva tentato di mettersi in proprio; Belnome era stato premiato invece per quell’omicidio ritrovandosi al vertice della Locale di Giussano. Arrestato nel 2010, aveva deciso però di vuotare il sacco, aiutando a ricostruire almeno quattro omicidi insoluti e svariati crimini. "Condannato a una pena che scadrà soltanto nel 2039", come ricorda lo stesso Belnome, il collaboratore di giustizia vive oggi in una località protetta. La sua vita però, dopo aver deciso di diventare collaboratore di giustizia e denunciare di fatto gran parte dei suoi stessi parenti, è segnata. "Non volevo che i miei figli crescessero senza un padre come di fatto era accaduto al sottoscritto" ha confidato, prima al sostituto procuratore Ilda Boccassini della Dda di Milano e poi nel documentario del regista brianzolo. Il documentario , intitolato “Il padrino e lo scrittore”, trasmesso in Svizzera la scorsa primavera, approda ora in Italia e verrà trasmesso in anteprima nazionale venerdì sera proprio a Seregno, alle 21, nella sala civica Monsignor Gandini di via XXIV Maggio. Alla presenza dello scrittore Michele Costa, della direttrice della Direzione distrettuale antimafia di Milano Alessandra Dolci, della presidente della Commissione Antimafia Lombardia Monica Forte, del giornalista Mario Portanova, moderata dal referente di Libera Monza e Brianza, Valerio D’Ippolito. "Ci abbiamo dovuto lavorare per due anni - racconta Tagliabue -: abbiamo incontrato Belnome per tre giorni di fila nella centrale di protezione di Roma. Ci ha raccontato tanto: cosa volesse dire far parte della ‘ndrangheta, quali fossero i rapporti di potere all’interno di questa organizzazione criminale. Ci ha addirittura consegnato quello che era una sorta di dizionario della ‘ndrangheta, con i suoi rituali e parole d’ordine". Cosa ne esce? "Belnome ha raccontato tutto, da quando era bambino, cresciuto in Calabria dopo che suo padre era stato arrestato e sua madre lo aveva affidato a uno zio che venne poi ucciso, perché era egli stesso un boss. E poi i suoi cugini uccisi in giovane età all’interno di faide che si auto alimentavano, la sua scalata al potere, l’omicidio Novella, a cui partecipò anche per vendicarsi di quello che riteneva uno dei responsabili dell’uccisione dell’amato zio… Ci sono tante cose nel materiale che abbiamo girato, tante che alcune sono state escluse dal documentario, come quando Antonino Belnome era una promessa del calcio a Catania". Un giorno sarebbe diventato “dominus assoluto” della ‘ndrangheta in Brianza. È davvero pentito? "Non me lo sono mai chiesto, di sicuro è stato un collaboratore di giustizia credibile, che ha contribuito a molti processi. La sua vita è cambiata nel momento in cui ha deciso di parlare; la sua famiglia, che si è sentita “tradita”, lo ha disconosciuto e dalla ‘ndrangheta gli sono già arrivate minacce esplicite che si porta dentro, come quella di decapitare suo figlio non appena avrà compiuto i 18 anni".