A 13 anni in pista con il papà commissario di gara: "Mi disse abbassati, poi il botto"

Massimo Paganini, figlio di un commissario di gara, ricorda la vigilia dell’incidente che nel 1970 costò la vita a Rindt

Giorgio, padre dell'imprenditore Massimo Paganini, con il pilota Michele Alboreto

Giorgio, padre dell'imprenditore Massimo Paganini, con il pilota Michele Alboreto

Monza - "Stavamo scendendo dalla torretta che una volta era frontale all’uscita della Ascari vecchia. Quella torretta che segnava i chilometri di gara. A un certo punto mio papà mi ha urlato “Abbassati!“ È stato un attimo, mi sono accovacciato, ho sentito un sibilo nell’aria, ho tirato su lo sguardo e ho visto volare sopra la mia testa una Lotus. Era decollata ed è finita dentro al bosco".

Massimo Paganini aveva 13 anni appena. Era lì con il papà Giorgio, storico commissario di gara. Prima in zona Parabolica, poi a Lesmo e al semaforo dell’uscita box. Quel giorno di prove del Gran premio d’Italia del 1970 Massimo ha visto volare la macchina del compagno di squadra di Jochen Rindt, il pilota austriaco che il giorno dopo trovò la morte praticamente nello stesso punto. "È stato un incidente terribile, io dalla paura poi sono scappato via per mettermi al sicuro". Ma Massimo, che in autodromo s’è fatto grande affianco al papà, sapeva fin da piccolo che lì in pista, all’autodromo di Monza, i piloti sfidavano la morte a ogni giro. Una roulette: "Quando nel 1978 ci fu l’incidente in cui morì Ronnie Peterson mio papà era lì, in mezzo a quel fuoco".

È cresciuto con le imprese tragiche ed eroiche della vecchia Formula Uno, guardandole con i suoi occhi ma anche attraverso i racconti del papà, che a Milano aveva un negozio di ricambi e accessori per auto dove vendeva anche caschi e tute. Poi la passione l’aveva portato a diventare commissario di gara: "Con la fascia del commissario entravi a qualunque gara e potevi andare ovunque, pure fin quasi in pista – racconta Paganini, a capo della Sirples, azienda che produce microinterruttori per Ferrari, Lamborghini, Pagani, Aston Martin e Maserati –. Poi quando è arrivato Bernie Ecclestone è cambiato tutto, quella fascia non valeva più. I cancelli si aprivano soltanto con i pass". Ecco perché "mi sento fortunato. Perché prima che cambiasse tutto e che la Formula Uno si allontanasse sempre di più dalla gente, io me la sono goduta. Era un circo, era tutto più ruspante e naif, nel bene e nel male. Ma – confessa – l’autodromo era il sogno di un bambino che adorava le Ferrari. Era il mio luna park. Respirare l’odore della benzina e delle gomme, vedere le macchine veloci, guardare da vicino i piloti, sentire il rombo dei motori 12 cilindri era il gioco più bello che potessi ricevere in regalo". Come quando a 8 anni "nei vecchi box ho visto Enzo Ferrari con il suo impermeabile. Mi sono avvicinato e gli ho chiesto l’autografo".

A Monza Massimo è riuscito anche a vedere "la Lotus a gasolio con il motore che era una turbina di aereo, quando arrivava sentivi soltanto un sibilo ma per frenare ci voleva un’autostrada intera", e la Ferrari ‘spazzaneve’, una versione della 312B3 che però non corse mai". L’unico brivido che non ha mai provato è stato scavalcare le reti per entrare, "con mio papà entravo sempre senza bisogno di fare il portoghese". Allora era tutto più pericoloso, è vero: "Mio padre sbandierava dentro la parabolica, a 2 metri dal cordolo perché era l’unico modo per farsi vedere dai piloti, ma se un’auto scartava all’improvviso lo prendeva in pieno e lo tagliava in due". Però quel clima che si respirava allora tra i tifosi e i piloti "era più divertente. Oggi non c’è più tempo quel romanticismo".