Giovanni Raiberti, il medico-poeta esiliato a Monza

Fra Rossini e il dialetto meneghino, storia del personaggio che si ritrovò per punizione a dirigere un ospedale

La lapide commemorativa all'ospedale Vecchio dedicata a Giovanni Raiberti

La lapide commemorativa all'ospedale Vecchio dedicata a Giovanni Raiberti

Monza, 9 dicembre 2019 - “Giovanni Raiberti direttore di questo nosocomio. Al medico poeta che il romano e vetusto Orazio fece milanese e contemporaneo e coll’aculeo del carme vernacolo e d’una prosa originale corresse i costumi ed aiutò gli intenti dell’arte salutare apprestando agli spiriti il farmaco della sapiente giovialità  La vedova Giuseppina Bolgeri legava un letto per cronico a perenne memoria del marito n. in milano nel 1805 e m. in monza nel 1861”. In questa lapide su un muro dell’ospedale vecchio di Monza, magari un po’ verbosa e di oscuro significato per il passante distratto, si tenta di riassumere la figura di un personaggio per molti misconosciuto a cui Monza pure ha dedicato una via e una scuola elementare. Un personaggio di cui val forse la pena di ripercorrere l’intensa vita che suo malgrado si intrecciò per quasi vent’anni alla storia di Monza.

Perché Giovanni Lodovico Ambrogio Rajberti in realtà era sempre stato un milanese fino al midollo. Nato nel 1805 a Milano, di umilissime condizioni economiche (discendeva da una famiglia di nobili decaduti), aveva studiato in seminario, perché questa era l’unica possibilità ai tempi per chi non potesse contare su un solido patrimonio familiare. Salvo poi abbandonare l’abito ecclesiastico appena gli era stato possibile per andare a studiare medicina a Pavia. Ironia della sorte, per uno spirito ribelle come il suo, con una tesi sulle proprietà della valeriana.

Di indole tutt’altro che quieta, Giovanni Raiberti non si limitò a esercitare la professione di medico, egregiamente peraltro, ma si dilettò anche in quella di scrittore. Con gusto da fine umorista, in vernacolo milanese, scrisse poesie, trattati, libelli, traduzioni. "L’opinione pubblica non si persuaderà mai che medico e poeta stiano ben d’accordo – scriveva - parmi ad ogni sestina che scrivo veder disertare un ammalato: o meglio parmi, che come la vezzosa siringa si converse in canna e il bel Giacinto in tulipano, così i miei malati si trasformino ad uno ad uno in altrettante sestine... se mai è destino che al mio nome sia cucito il mal auguroso predicfito di poeta sappiate almeno, lettori, che io sono poeta medico o meglio medico-poeta". 

Godibilissimi i componimenti dedicati al suo cane (“El pover Pill”, un elogio funebre) e l’altro, più divertito e sicuramente meno struggente, al suo gatto. E poi notevoli le sue traduzioni in dialetto meneghino dei versi del poeta latino Orazio. Piace poi ricordare le parole divertite che dedicò al grande compositore Gioachino Rossini in occasione tanti anni prima di una sua visita a Milano, "libritt d’inferno, musica divina!... la sua gloria/ l’è gloria che capiss tutta la gent... l’è on quart de secol che l’è in bocca al mond". Insomma, brutti libretti, ma musica divina che la gente capisce e che da un quarto di secolo ne fa parlare in tutto il mondo. 

Peccato che in quella stessa occasione Rajberti si fosse lasciato sfuggire anche versi anti-regime nei quali aveva definito l’Italia "povera Donna strapazzada/serva strasciada che la perd i tocchi" con chiaro riferimento alla dominazione austriaca e che gli costarono la messa al bando da Milano nonostante il suo disperato ma vano tentativo di far personalmente sparire tutte le copie del giornale che riportava le sue parole di scherno. Pagò dunque l’antipatia per gli Austriaci, il suo sarcasmo anti-asburgico e le simpatie risorgimentali con il trasferimento a Monza, dove gli furono comunque affidati la direzione dell’ospedale cittadino e il ruolo di primario in chirurgia (segno di quanto, nonostante tutto, anche gli odiati Austriaci lo considerassero bravo). Non perdonò tuttavia mai questo affronto. Tanto che nel corso delle Cinque giornate di Milano, anche se non combattè in prima linea, fu tra i medici che si adoperarono per curare i rivoltosi feriti: "e sont staa all’ospedaa squas tutt el dì/a giusta, resegà, stagna, cusí". E cioè, "sono stato all’ospedale quasi tutto il giorno ad aggiustare, tagliare, stagnare e cucire" feriti e moribondi.

A Monza visse con la seconda moglie (dalla prima, di cui era rimasto vedovo, aveva avuto 5 figli). In attesa sempre di andarsene dal “triste esiglio” monzese. Quando però questa possibilità si concretizzò nel 1859, data nella quale gli venne offerta la direzione dell’ospedale di Como, ci pensò un ictus cerebrale a toglierlo di mezzo. Ridotto all’immobilità e all’afonia, morì l’11 dicembre 1861. Dicono che le sue condizioni di salute avessero illuso un giorno gli amici quando all’improvviso il medico-poeta era parso sul punto di ricominciare a parlare ma dalla sua bocca era uscita soltanto un’esclamazione (patriottica) prima di ripiombare nel silenzio: "Garibaldi!".