Il calciatore deportato che salvò la pelle grazie a una partita a pallone con le Ss

La vicenda del giovane Ferdinando Valletti, che dopo aver militato da ragazzo nel Seregno spiccò il volo verso il Milan

Ferdinando Valletti (a destra), con un compagno del Milan

Ferdinando Valletti (a destra), con un compagno del Milan

Seregno (Monza e Brianza), 20 dicembre 2020Era un calciatore promettente Ferdinando. Centrocampista, uomo di corsa e fatica ma dotato di una buona tecnica individuale. Nelle giovanili dell’Hellas Verona si era già fatto notare e così, quando trovò lavoro all’Alfa Romeo di Milano, oltre alla squadra della fabbrica ne trovò un’altra dove fare esperienza: il Seregno, compagine che militava in serie C e che era un serbatoio del più prestigioso Milan. Ci rimase per un po' di mesi e giocò 28 partite, sino a quando venne richiamato dai Rossoneri. Il sogno di diventare un calciatore si stava avverando. Due ostacoli però strozzarono le sue ambizioni: un brutto infortunio al menisco ancora prima dell’esordio in prima squadra, e poi una spia. Un delatore, che lui considerava amico e che invece, in quegli anni di vigliaccheria e paura, lo vendette. Prima ai Fascisti, poi ai Nazisti.

La drammatica storia di Ferdinando Valletti comincia così, in Brianza e ruota tutta attorno a un pallone. Una sfera di cuoio che sarebbe stata destinata un giorno a cambiargli la vita. Ferdinando, nato a Verona il 5 aprile 1921, è un giovane di nemmeno 23 anni, sangue caldo nelle vene e forti principi: e quando si ritrova a fare una scelta, nella primavera del 1944, non ha dubbi. Quando i partigiani in fabbrica iniziano a organizzare un grande sciopero generale, Ferdinando non si tira indietro. Aiuta a distribuire volantini e, ovviamente, incrocia le braccia il giorno designato, il 1° marzo 1944. 

I Repubblichini schiumano rabbia. E una sera a casa di Ferdinando, che si è appena sposato e attende una bimba, si presentano gli uomini della Legione Autonoma Mobile “Ettore Muti”. Ferdinando si trova caricato su un treno merci alla stazione di Milano, al binario 21. Inizia il viaggio più lungo. Prima al campo di concentramento di Mauthausen, in Austria, poi a quello di Gusen. “Squadra cemento”, a scavare le gallerie in cui occultare le fabbriche belliche tedesche. Ferdinando, che alla sua partenza pesava 70 chili, si ritroverà a pesarne 39. Molti compagni di prigionia muoiono di stenti. Il lavoro e le guardie sono feroci. Gli episodi di violenza e le umiliazioni sono continui. Fino a quando un giorno la salvezza si presenta nella forma di un pallone. Ancora lui.

Ferdinando viene chiamato dalle guardie, teme l’ennesima punizione o peggio. Lasciamo raccontare a lui: "Appresi che sul mio foglio di trasferimento a Gusen era stato appuntato che ero un giocatore di calcio. Mi venne chiesto se fosse vero, in quale squadra avessi giocato e con quale ruolo. Rimasi esterrefatto, non potevo credere a ciò che mi stava succedendo, ero lì in mezzo a tutto quel dolore, i miei compagni morivano di lavoro, di fame, di sfinimento, di botte in un campo di sterminio… e le SS mi parlavano di calcio e lo facevano come se fosse la cosa più normale del mondo!". Ferdinando ha la prontezza di rispondere: "Sì, ero un giocatore del Milano". Il Milan si chiamava così, all’epoca, il Regime pretendeva nomi italiani.

"Le due SS si scambiarono un’occhiata e mi dissero che mi avrebbero provato sul campo, se avevo mentito mi avrebbero ucciso". Ferdinando scopre che ogni quindici giorni le SS giocano a calcio fra di loro, ma sono rimaste a corto di giocatori, "io avrei dovuto essere pronto a giocare per sostituire eventuali assenti". I Tedeschi lo rifocillano e organizzano una partitella per metterlo alla prova. Sarà il provino più importante della sua vita. Ferdinando ricorda il nome di battaglia che gli avevano cucito addosso quando era ancora un calciatore, “Nando”, e disputa il provino migliore della sua carriera. "Non sentivo alcun dolore, mi trovavo il pallone tra i piedi e passavo la palla come sapevo fare, senza nemmeno pensarci, due, tre quattro volte mentre il viso mi si rigava di lacrime". Sembra un film, ma è proprio la verità. Ferdinando è ingaggiato e chiamato alla sua prima partita.

E non delude le aspettative, "giocai bene, proprio bene! Mi sembrava di volare, la mia mente era tornata al mio Milan, all’Arena, al fragore del pubblico dopo una bella giocata. La realtà era ben diversa, ma dovevo farcela, la mia passione per il calcio mi stava aiutando e nonostante le mie condizioni fisiche, feci dei bei passaggi e fornii alla squadra buone occasioni per segnare e la squadra segnò per due volte". È la sua fortuna. Il rancio aumenta di pari passo col nuovo incarico e gli viene trovato anche un lavoro meno usurante e pericoloso nel campo di concentramento: sguattero delle cucine. Un’ottima occasione, per lui che quasi si sente in colpa pensando ai compagni di prigionia meno fortunati: può rubacchiare qualche avanzo, però, nasconderlo negli zoccoli e portarglielo di nascosto. 

Il resto è storia. Ferdinando Valletti riesce a sopravvivere e a tirare sino al giorno della Liberazione, quando i carri armati americani entrano nel campo di concentramento. Dopo 18 mesi Valletti riuscirà a fare ritorno a casa. E ad abbracciare sua figlia, che ha ormai compiuto 10 mesi. Tutto grazie a un pallone, che aveva imparato a calciare (anche) a Seregno. Dopo la guerra, Ferdinando Valletti in casa per anni disse poco o nulla della terribile esperienza nel campo di concentramento. Come tanti deportati: quell’orrore era indicibile. "Cominciò ad occuparsene quando andò in pensione - ricorda la figlia, Manuela Valletti Ghezzi, giornalista e scrittrice -: venne contattato dall’ANED e incontrò tanti studenti, e raccontò loro la sua storia. Alla fine veniva bombardato di domande alle quali rispondeva sempre e per lungo tempo. In quel periodo ero io che scrivevo la sua storia a macchina, e in quel periodo ho approfondito con lui tutto il suo dramma, prima non ne parlava diffusamente, non lo ha mai fatto".

A Milano Ferdinando Valletti si era sposato giovanissimo, nel 1943, con Lidia. La figlia Manuela, che papà Ferdinando aveva conosciuto al ritorno dalla deportazione, si è occupata di mettere nero su bianco quei ricordi trascritti nel corso dei suoi incontri con gli studenti: "Ho scritto un libro che ha avuto un buon successo, “Deportato I 57633 voglia di non morire-La storia incredibile del deportato calciatore” e sempre con lo stesso titolo esiste un docufilm realizzato dal regista Mauro Vittorio Quattrina. Ora sono io che accolgo l’invito delle scuole e il documentario mi aiuta molto. Mio padre (scomparso nel 2007, partigiano e dirigente d’azienda, ndr ) è dal 2017 Giusto tra le Nazioni ed è nel giardino dei Giusti di Milano".

P.S.: un ringraziamento, oltre che alla figlia Manuela Valletti Ghezzi per il suo libro, va anche per ricerche e foto al sito magliarossonera.it e a Luigi La Rocca.