Esule giuliano-dalmata nelle scuderie della Reggia: "Da profugo vissi come un fantasma"

Il racconto di Roberto Slamitz: "Una vergogna il silenzio su gente come noi"

Roberto Slamitz nei luoghi della sua infanzia alla Villa Reale

Roberto Slamitz nei luoghi della sua infanzia alla Villa Reale

Monza, 17 giugno 2018 - "Per tutta una vita non ci avevo mai pensato. In casa non se ne parlava. Poi - quando nel 2004 istituirono il Giorno del Ricordo - ho avuto come una rivelazione. Ehi, mi sono detto, ma io sono uno di quelli. E allora ho cominciato a parlarne anch’io". Nelle scuole, in comune, ovunque lo invitassero. Roberto Slamitz oggi è un uomo di 69 anni. Occhi azzurri, fisico asciutto, sorriso aperto, è figlio di una delle migliaia di famiglie di profughi fuggiti in Italia all’indomani della presa di potere da parte delle truppe del maresciallo Tito in Jugoslavia. Rastrellamenti. Fucilazioni. Violenze. Le Foibe.

Da Istria, Fiume, Pola, ebbe inizio l’esodo giuliano-dalmata, insomma si ritrovarono costretti a fuggire fra le 300 e le 350mila persone. Fra loro anche i genitori di Roberto. Sua madre (da Fiume, oggi in croato Rijeka) e suo padre (da Ragusa, oggi Dubrovnik) si conobbero a Verona, in uno dei tanti campi profughi in cui si trovarono a vivere. Roberto nacque proprio in uno di questi campi, a Marina di Massa (Carrara). E a Monza venne a vivere quando aveva solo 3 anni. Era il 1952 e la famiglia Slamitz visse per 3 anni in un luogo di cui pochi oggi ricordano che un tempo fu destinato anche a quello scopo: le scuderie della Villa Reale. Dove nel 1948 fu allestito uno dei tanti campi profughi per accogliere gli esuli dalla Jugoslavia, che verrà chiuso soltanto nel 1967. "Erano stalle a tutti gli effetti. Niente riscaldamento, brande militari a castello e pagliericci, coperte come divisori fra i box. Oggi lì, negli spazi restaurati, ampliati e adattati, ci sono le aule del liceo artistico. Sono tornato a vederle qualche anno fa, mi sono portato anche il metro per misurarle: tre metri e mezzo per tre metri e mezzo, questo all’epoca era lo spazio a disposizione di ogni famiglia. Noi eravamo in quattro, c’era anche mia sorella più piccola, di due anni».

Slamitz ha ricordi vividi di quegli anni, nonostante la tenerissima età. La miseria. La scarsità di cibo. Il freddo, "si dormiva vestiti". Le continue otiti, "fino a 6 anni fui costretto a indossare perennemente una ridicola cuffietta di lana per tentare di riparare le orecchie dal freddo". I giocattoli inesistenti. "Conservo ancora le coperte che fungevano da divisorio tra le famiglie, la valigia di cartone che ci portavamo dietro nella nostra vita da profughi: usavo gli angoli rinforzati di quelle rotte come mattoncini del Lego per fare le costruzioni. Altro non c’era". 

Poi nel 1955 "mio padre trovò lavoro alla Singer e guadagnò abbastanza per pagare un affitto. E così quando avevo 6 anni andammo a vivere in una vera casa, in viale Campania e finì la nostra vita da profughi". Ma non da esuli. "Per anni mi vergognai al momento dell’appello, quando in classe risuonava il mio cognome, così inusuale per gli altri italiani: Slamitz, lascito dell’impero austro-ungarico". Poi la vita piano piano scorre. Il campo profughi alla Villa Reale chiude solo nel 1967, ma poco o punto se ne parla. "Noi profughi eravamo come fantasmi in città, potevamo uscire certo ma i documenti erano custoditi all’ingresso". Roberto resta a Monza fino al servizio militare. Elementari. Medie. Il lavoro alla Pirelli e le scuole serali all’Itis Hensemberger. Poi il futuro da tecnico di impianti di radiologia lo porta in giro per il mondo.

E un giorno arriva la piena consapevolezza del proprio passato da figlio di esuli. "Fu vergognoso come tutto quello che avevano subito almeno 350mila persone venne volutamente dimenticato; anzi, peggio, nascosto. Li chiamavano traditori, fascisti solo perché avevano abbandonato le proprie case per sopravvivere e rimanere italiani come erano sempre stati. A Bologna un giorno il Pci minacciò uno sciopero dei ferrovieri per impedire di fermarsi a un treno pieno di profughi come noi, ammassati come bestie. Il latte caldo, pietosamente preparato dalla Caritas per sfamare donne e bambini sul treno, venne versato sulle rotaie". Il giudizio storico è tanto lucido quanto spietato. "I fascisti commisero crimini atroci in Istria e Dalmazia, organizzarono veri campi di concentramento. Mio padre pur di non combattere per loro fuggì: divenne renitente alla leva e fu ferito durante un rastrellamento".

E quando i nazifascisti furono sconfitti? "Il regime comunista di Tito fu altrettanto spietato e brutale per ritorsione. E la povera gente ne fece ancora una volta le spese. Fa rabbia pensare a come venne affrontato in Italia tutto questo: ci sputavano addosso, ci davano dei fascisti solo perché eravamo fuggiti dal presunto “paradiso” di Tito. Ci sono voluti più di 50 anni perché la verità venisse riconosciuta anche sui libri di storia".