Covid, conseguenze post infezione: difficoltà respiratorie per il 35% dei guariti

Fiato corto anche a un anno dalla malattia da Covid: lo dimostra uno studio della Pneumologia di Vimercate

Il primario Paolo Scarpazza ha portato avanti la ricerca col suo staff

Il primario Paolo Scarpazza ha portato avanti la ricerca col suo staff

Vimercate (Monza Brianza) - Gli strascichi del Covid a un anno dalla malattia: il 35 per cento dei pazienti ha ancora difficoltà a respirare, mentre sta camminando.

La Pneumologia di Vimercate ha partecipato insieme con altri centri lombardi alla ricerca della quale è capofila Monza e ha catturato l’attenzione di “Respiratory Research“, una tra le più autorevoli riviste scientifiche del mondo, che l’ha pubblicata. I 287 pazienti che ce l’hanno fatta, messi sotto la lente del primario Paolo Scarpazza e del suo staff, sono stati suddivisi in tre diversi gruppi, secondo la gravità della polmonite da Sars-Cov 2. Nel primo c’era chi è stato intubato, nel secondo chi invece ha avuto bisogno solo del casco e nel terzo le persone che ne sono venute fuori grazie alla mascherina a ossigeno. Tutti sono stati osservati due volte, a 6 mesi dalla dimissioni con lastra al torace, visita e test del respiro, e a un anno con una Tac.

"Nessuno aveva avuto problemi polmonari precedenti, il campione è stato selezionato in base a questo criterio – spiega Scarpazza –. L’esame che misura la capacità dei polmoni di trasferire ossigeno al sangue mostra un piccolo deficit nel 53% dei trattati con l’ossigeno, nel 29% di quelli che hanno usato il casco e nel 49% di chi è stato in rianimazione". La Tac invece mostra lievi alterazioni nel 46% del gruppo ossigeno, nel 65% del target casco e nell’80% degli intubati. I più anziani entrati e usciti dalla terapia intensiva hanno maggiori possibilità di sviluppare conseguenze. A 12 mesi dall’uscita dal reparto 3,5 malati su dieci hanno il fiato corto sotto sforzo. "Tutto sommato – sottolinea il primario – conseguenze modeste rispetto all’aggressività dell’infezione". 

Non è la prima volta che uno studio della divisione brianzola cattura l’attenzione della comunità scientifica internazionale. Era già successo nel novembre scorso, quando l’“Austin Journal of Infectious Diseases“ rese noti i risultati di un approfondimento in 150 positivi colpiti durante la prima ondata della pandemia. Il target comprendeva le insufficienze respiratorie gravi. La mortalità totale nel gruppo era stata di quasi un terzo, il 28%. Numeri che riportano a galla i ricordi più dolorosi della crisi sanitaria con le bare ammassate negli obitori e nei cimiteri in attesa di sepoltura. Anche quello fu uno studio di riferimento "perché realizzato interamente nelle nostre corsie" che evidenziò l’importanza dell’approccio multidisciplinare per guarire. Al team parteciparono chirurghi e specialisti della riabilitazione.

La Pneumologia è stata anche protagonista di iniziative all’avanguardia come il kit per i dimessi, una delle prime applicazioni di medicina a distanza che ha consentito di superare le difficoltà di farsi visitare legate all’epidemia, quando non c’erano i vaccini. Chi ha sconfitto il virus è tornato a casa con cellulare e saturimetro, il piccolo congegno per il monitoraggio dei parametri vitali. Il filo diretto fra specialisti e medico di famiglia ha ridotto le ricadute.