Coronavirus, il medico: "Tre mesi di inferno, a decidere a chi dare un casco per vivere"

Un medico di pronto soccorso in Brianza, dietro garanzia dell’anonimato, racconta i giorni più difficili: "In tanti ora abbiamo gli incubi"

Grande impegno e sofferenza nei reparti Covid degli ospedali brianzoli

Grande impegno e sofferenza nei reparti Covid degli ospedali brianzoli

Monza, 11 giugno 2020 - Quando tutto era appena cominciato, raccontò cosa stava accadendo dentro ai pronto soccorso appena colpiti dalla pandemia. Lo abbiamo risentito a tre mesi di distanza. Un medico di pronto soccorso in Brianza, travolto dall’emergenza. Sempre dietro garanzia di proteggerne l’anonimato.

Le cose vanno meglio? "La vita nei pronto soccorso è decisamente migliorata. Ce ne accorgiamo anche dal fatto ( sorride ) che sono ripresi gli accessi da parte di persone che non hanno vere emergenze. Come accadeva prima...". Tre mesi diceva: “bisogna tagliare i ponti a questo virus”. "E per fortuna è andata proprio così. Non vediamo quasi più casi di Covid da giorni, l’emergenza sembra passata". Da cosa dipende? "La chiusura del Paese è senza dubbio servita. Anche se la vera chiave è stata un’altra…". Quale? "L’uso diffuso di dispositivi di protezione, mascherine soprattutto. Noi operatori sanitari, ad esempio, che pure siamo stati immersi in questo terribile virus, grazie all’uso di guanti e mascherine ne siamo stati toccati in minima parte. E la carica virale è stata abbattuta tantissimo. Ecco, forse se l’avessero fatto subito, quando ancora le mascherine non si trovavano, ci saremmo risparmiati parecchi morti". E il lockdown? "Forse non sarebbe stato neppure necessario in modo così stringente. Anche se è vero che gli Italiani, se non li costringi, forse non avrebbero adottato le precauzioni che ora sembrano aver assimilato". Sono morti parecchi medici. "Soprattutto nella fase iniziale, quando le mascherine non c’erano e non è un caso che a contrarre la malattia siano stati soprattutto i medici di base, abbandonati a se stessi. Con una medicina del territorio che è venuta tragicamente a mancare. Mentre chi lavorava negli ospedali, pur immerso in un ambienta chiuso e potenzialmente pericoloso, è riuscito a difendersi meglio. Fra noi paradossalmente ci sono stati pochi contagi e ho la sensazione che anche parecchi dei colleghi o infermieri che hanno contratto il Covid lo abbiano fatto al di fuori dagli ospedali, quando rientravano a casa. Il problema è per mesi non ne sapevamo nulla neanche noi e alla sera tornavamo a casa terrorizzati di infettare i nostri cari". È stata dura la vita in trincea? "Sono stati mesi terribili, negli ospedali vedevamo i pazienti morire come mosche, sembrava che stessero annegando e non avevamo respiratori e caschi CPAP (“Continuous Positive Airway Pressure”, i caschi respiratori , ndr ) sufficienti per tutti. E siamo stati costretti a scelte strazianti". Quali? "Chi curare e chi no. Arrivavano di solito i rianimatori a spiegarci come comportarci. Se un paziente era anziano, sopra i 70 o 75 anni di età e con patologie pregresse, ci dicevano che non valeva la pena investire mezzi ed energie. Era purtroppo inevitabile, quando non hai respiratori, caschi e letti per tutti. E non sempre questa scelta riguardava solo gli anziani. Ricordo un paziente giovane, ma gravemente sovrappeso e con problemi di ipertensione: non si trovava in condizioni di riuscire a cavarsela. Purtroppo i casi simili sono stati tanti". Psicologicamente... "C’erano colleghi che piangevano in continuazione… ricordo un paziente di 80 anni, lo aveva portato il figlio, non riusciva più a respirare ed era andato in arresto respiratorio. Riuscimmo a rianimarlo, ma ci “beccammo” un rimprovero: “lasciate stare, non ci sono risorse!”. Oppure ricordo pazienti che venivano attaccati per un paio d’ore a una bombola e, se non miglioravano, bisognava staccare il respiratore per darlo a qualcun altro" Terribile. "Ti rendevi conto che non avevi alternative, eravamo sommersi. E a volte ti ritrovavi come un avvoltoio ad attendere che un paziente particolarmente grave esalasse l’ultimo respiro per portargli via il letto e darlo ad un altro". Si diceva, le lacrime. "Ci sono stati affiancati psicologi per aiutarci, molti di noi hanno ancora gli incubi di notte. Abbiamo addosso una stanchezza fortissima: abbiamo lavorato a ritmi infernali e avevamo le ferie bloccate certo, ma la verità è che molti di noi sono alle prese come con una fase di stress post traumatico, con veri stati d’ansia. E ci rendiamo conto che succede anche alla gente che non ha vissuto le nostre esperienze e che dopo il lockdown ha paura a uscire di casa e avverte crisi respiratorie che sono soprattutto psicologiche. Come accadeva anche a noi, a cui a volte sembrava letteralmente di soffocare". Avevate pesanti bardature. "Calzari, mascherine chirurgiche a cui dovevi sovrapporre quelle con le valvole, doppi guanti. Visiere che ti tagliavano la pelle e davano irritazioni che potevi medicare solo applicando un cerotto". Terapie? "Si procedeva per tentativi, le istruzioni che ci arrivavano continuavano a cambiare. Non avendo mai avuto a che fare con questo virus, era impossibile procedere diversamente: abbiamo utilizzato di tutto, plaquenil, ossigeno, cortisone, eparina per evitare trombosi quando ci siamo resi conto che questo virus attaccava i vasi sanguigni. Perché non colpiva solo i polmoni, ma poteva attaccare anche reni, cuore, cervello. Abbiamo avuto a che fare spesso con infarti e ictus da Covid". Il tempo è sembrato a tratti  vitale. "Un fattore decisivo. Dopo un po’ ci siamo resi conto che quando i pazienti arrivavano in ospedale, spesso era già troppo tardi. Averli tenuti a casa sino all’ultimo aveva peggiorato le cose, del resto era un gatto che si mordeva la coda per evitare i contagi. Abbiamo trovato soluzioni di emergenza per aprire nuovi posti di terapia intensiva, ma è stato uno tsunami”. Dice il primario Alberto Zangrillo che il virus, dal punto di vista clinico, è scomparso… "Non sono un virologo, ma dal punto di vista strettamente clinico non dice una sciocchezza. Non vediamo più pazienti che annaspano. Non saprei dire però se all’inizio la carica del virus fosse più violenta o semplicemente se all’inizio ha colpito persone con meno risorse per difendersi, più esposte. Certo abbiamo perso una fascia intera della popolazione, parecchi dei nostri nonni". Tamponi e test sierologici sugli operatori sanitari? "Ce li hanno fatti solo qualche settimana fa, prima per settimane si tornava a casa terrorizzati, a spiegare ai figli, magari bambini piccoli, che non potevano abbracciarti. Ho visto colleghi che sono andati a vivere fuori casa per 70 giorni pur di non rischiare di contagiare la famiglia" Oggi però medici e infermieri, nell’immaginario, sono eroi. "Ma credo che presto la situazione tornerà alla normalità e per tutti noi ricominceranno insulti e minacce. In pronto soccorso sta già cambiando il vento. Forse… è quasi confortante".