Carlo Orlandi, il pugile dimenticato che vinse le Olimpiadi

L'atleta sordomuto nato a Seregno ebbe una fine nella miseria dopo una vita di trionfi e sacrifici

Il pugile Carlo Orlandi

Il pugile Carlo Orlandi

Seregno (Monza e Brianza), 4 febbraio 2018 - Lo chiamavano El Negher di Porta Romana. A dire il vero però Carlo Orlandi (23 aprile 1910-29 luglio 1983) tanto "negher" non era, ma aveva solo una carnagione decisamente olivastra. E milanese forse lo era soltanto di adozione, dato che parecchi i biografi lo hanno sempre dato come nativo di Seregno. Di certo a lui toccò l’onore di conquistare la prima medaglia d’oro per l’Italia nell’antica disciplina del pugilato, la "noble art" dello sport.

 Quelle del 1928 ad Amsterdam furono le Olimpiadi delle prime volte. Per la prima volta fu la torcia olimpica a dare il via ai Giochi. Per la prima volta ci fu uno sponsor ufficiale, la Coca Cola. E per la prima volta, anche se il barone De Coubertin non era troppo d’accordo, le gare di atletica si aprirono alle donne. Infine, per la prima volta l’Italia conquistò quella medaglia d’oro nel pugilato – anzi tre - che il regime fascista attendeva con ansia.  

GLI INIZI

E a quei Giochi si affaccia per la prima volta un pugile sconosciuto: si chiama Carlo Orlandi ed è sordomuto. Quando era ancora bambino era stato assalito da un grosso cane che lo aveva azzannato a spalla e collo. E se la maggior parte delle ferite guarirono, qualcosa si spezzò in quel bambino e il trauma psicologico che riportò fu permanente: il suo udito non fu più lo stesso e le parole gli si strozzarono in gola uscendo smozzicate e faticosamente intelleggibili. Forse anche per reagire a tutto questo, a un mondo che per lui era diventato troppo piccolo e solitario, Carletto Orlandi entra in una palestra a Milano quando è ancora giovanissimo, a 15 anni. E qui trova un nuovo mondo pronto ad accoglierlo. Tenace e combattivo, Carlo Orlandi, abituato a non poter dialogare liberamente ma dotato di vivace intelligenza, dimostra subito di essere forse più portato degli altri a imparare. Per boxare, del resto, le parole non gli occorrono: spirito di osservazione, riflessi, eleganza, fantasia, diventano la sua cifra stilistica sul ring. Al primo torneo a cui lo iscrivono sconfigge tutti i suoi avversari. Era nato un talento. E sul ring nasce anche il caratteristico urlo con cui Carletto scatenava tutta la sua carica. E che intimoriva gli avversari.

Non ha ancora compiuto i 18 anni quando ai campionati italiani vince nei pesi leggeri e strappa il pass per le Olimpiadi di Amsterdam. E nel 1928 si ritrova fra i 13 atleti della squadra di pugilato partita dall’Italia piena di aspettative. È il sesto anno dell’era Fascista e Benito Mussolini pretende medaglie a tutti i costi, specialmente nel pugilato, lo sport dei combattenti. Alberghi non ce ne sono e la Nazionale alloggia bordo del piroscafo Solunto, ormeggiato a poche miglia da Amsterdam. Il 28 luglio 1928 comincia la nona Olimpiade, fra un tripudio di inni e bandiere, anche se Carlo Orlandi ovviamente non sente una parola della solenne cerimonia del giuramento. E la sua Olimpiade sembra partire male, dato che nel primo incontro si ritrova con un incisivo spezzato. Eppure resiste e il suo percorso si trasforma in una cavalcata che lo porta a trionfare in finale contro il favoritissimo campione americano Stephen Halaiko, autentico picchiatore del ring. La tecnica sopraffina e raffinata del pugile italiano hanno la meglio e Orlandi incassa, oltre alla medaglia d’oro, i complimenti della regina d’Olanda, che invita i vincitori a un ballo a corte: «Un pugile come voi non lo rivedremo più».

IN ITALIA: CADUTE E RISALITE

Il ritorno in Italia è trionfale. Passato ai professionisti detta presto legge nella sua categoria. Postura spavalda, volto sempre un po’ corrucciato e accigliato, ma gentile e cavalleresco nei modi, Orlandi si ritrova però a doversi rialzare da due cocenti cadute. La prima nel 1932, quando lo mandano in Argentina in tournée. E in una terra per lui a tratti incomprensibile, Carletto Orlandi mostra la sua fragilità: è costretto a gettare la spugna contro El Torito de Mataderos, il campione argentino Justo Antonio Suarez. Il Regime Fascista gli volta le spalle e lo accusa di codardia, dichiarandolo decaduto. Carletto Orlandi però è troppo orgoglioso. Si rifarà. Prima riprendendosi il titolo italiano e poi conquistando addirittura il titolo europeo.

La seconda e rovinosa caduta avviene nel 1935, quando viene messo k.o. dal portoricano Pedro Montanez detto El Diablo. Una commissione medica dichiara la sua inabilità a continuare a boxare gettandolo nella depressione. Anche questa volta, però, lo spirito di Orlandi risorge. Irrobustitosi e salito di categoria nei welter-medioleggeri, dopo due anni torna sul ring con tutta la sua fierezza e la sua classe. Combatterà, fra alterne fortune, fino al 1944, quando ormai l’Europa è sconvolta dalla guerra e su Milano cadono le bombe degli Alleati. Il giorno del suo ritiro nel carniere di Orlandi figurano 120 incontri fra i dilettanti e 127 da professionista con un bilancio di 98 vittorie.

 

VECCHIAIA E MORTE

La sua vecchiaia sarà però amara. Rimasto solo dopo la morte del fratello Alfredo e caduto in disgrazia, Carletto vive i suoi ultimi anni in un ospizio a Milano. Qui lo ritrova, pochi mesi prima di morire, un giornalista: solo e dimenticato, la sua medaglia d’oro finita in casa di una cognata, Orlandi non aveva più una lira e il mondo dello sport sembrava averlo dimenticato. Una voce dice che Saverio Turiello, uno dei suoi grandi avversari sul ring dei tempi d’oro, gli mandasse a volte del denaro dall’America, dove aveva fatto fortuna. E a chi gli chiedeva come immaginava il momento della sua morte, Carlo Orlandi rispondeva che all’apparire della Nera Signora avrebbe gridato “break”, per mandarla fuori tempo e guadagnare qualche istante ancora su questa terra.

 

IL LIBRO OMAGGIO

Alessandro Bisozzi ha da poco dedicato alla vicenda riportandola alla luce un libro. Si chiama "Carlo Orlandi. El negher di Porta Romana (Ginko edizioni). "Carlo Orlandi appartiene a quella schiera di grandissimi atleti che purtroppo per loro hanno avuto la "sfortuna" di svolgere la carriera nel Ventennio fascista. La "damnatio memoriae" che è calata inesorabile sopra ogni vicenda di quel periodo ha sciaguratamente cancellato anche tante imprese sportive di rilievo su cui Americani e Inglesi avrebbeo magari girato un film".