Brugherio, la Candy ai cinesi: "Una fine inevitabile"

Michele Gallina, ex operaio e storico delegato sindacale: "Con la globalizzazione, l’azienda non ce l’avrebbe mai fatta da sola"

Lo stabilimento Candy

Lo stabilimento Candy

Brugherio, 1 ottobre 2018 - Ragione e sentimento. Michele Gallina, 34 anni passati in fabbrica alla Candy, molti come delegato sindacale della Fiom, riflette sulla cessione della multinazionale brianzola ai cinesi. Il dispiacere è il primo stato d’animo, la mente suggerisce che ormai il disimpegno della famiglia del fondatore era scritto nei numeri, prima ancora che nella volontà. «Dal punto di vista emotivo è dura – ammette –, ma pensandoci con razionalità è l’approdo finale di un processo inevitabile».

Questione di dimensioni in un mercato agguerrito e planetario. «Se uno si confronta con la globalizzazione questa vendita appare come lo sbocco naturale. Era scontato – dice amaro – che Candy non ce la facesse da sola. E poi, è un fatto generazionale». Gallina ripensa a Niso Fumagalli, il capostipite, e alla sua inventiva, la sua tenacia: «Sembra una legge: i padri costruiscono, i figli espandono, i nipoti lasciano». Sì, perché la storia degli ultimi anni non somiglia affatto a quella degli inizi. Alla costante crescita di produzione si è sostituita la contrazione del personale, degli stabilimenti e dei marchi: «Zerowatt, Donora, Bessel sono solo alcuni dei gioielli ceduti: una continua emorragia che porta Candy a crescere all’estero e tagliare in Italia. E ora l’ultimo passo», ricostruisce la storica tuta blu, in pensione dal 2010.

«Da otto anni era mutata anche la linea della gestione, dagli eredi di Niso, tradizionalmente concentrati sulla fabbrica, si è passati a quelli del fratello Peppino, più orientati al commerciale. E la differenza si è vista – prosegue Gallina –. Quel cambio segnò anche la strada futura. Dall’azienda attenta alla responsabilità sociale e legata al suo territorio, al capitalismo senza cuore». La mente ritorna alle grandi battaglie dei metalmeccanici, lì nei capannoni del cuore pulsante di Brugherio, dove presto arriveranno i cinesi di Haier.

«Per la mia generazione quella fabbrica è stata una palestra di vita. Lì dentro è passato di tutto, c’era un vero fermento sociale: in Candy arrivavano i giornalisti, si discuteva. Era una realtà ricca di umanità, pur nell’inevitabile conflittualità di rapporti con la proprietà – ricorda ancora –. Nel 1989 facemmo 100 ore di sciopero per siglare un accordo. Cosa che oggi sarebbe impensabile». La voce dell’ex operaio, abituato alle lotte, si vela anche di autocritica: «L’impresa ha un valore, anche se negli anni Settanta abbiamo sbagliato a non capirlo. In un’azienda produttiva si crea reddito, ricchezza che si redistribuisce alle famiglie».