Ucciso e murato a Senago, alibi tutto da verificare: "Salvatore è in Posta"

Il manovale albanese strangolato e murato in un pozzo: Tambè a processo L’accusa è di aver tenuto ferma la vittima mentre veniva uccisa

I carabinieri avevano scoperto il cadavere dell’uomo murato in un pozzo artesiano

I carabinieri avevano scoperto il cadavere dell’uomo murato in un pozzo artesiano

Muggiò, 26 febbraio 2022 - «Salvatore non c’è, è andato in Posta". Salvatore è Salvatore Tambè, 45enne di Riesi (Caltanissetta), già agli arresti domiciliari per associazione mafiosa e ora in carcere perché ritenuto colui che ha aiutato a tenere fermo mentre l’ammazzavano Astrit Lamaj, 42enne albanese scomparso il 15 gennaio 2013 da Genova e rinvenuto murato nel gennaio 2019 nel pozzo artesiano di un residence a Senago. Il 45enne è ora imputato davanti alla Corte di Assise di Monza di concorso in omicidio volontario premeditato. Ma lui sostiene che in quei momenti era all’ufficio postale di Muggiò.

Come pare emergere dalla telefonata delle 10.08 del 15 gennaio 2013, intercettata dai carabinieri, in cui a chiedere di Salvatore Tambè è Ignazio Marrone, titolare di un’autodemolizioni a Desio già condannato per associazione mafiosa perché ritenuto affiliato alla Locale di ‘ndrangheta di Desio e proprio con Tambè, che era titolare in Brianza di una rivendita di pezzi di ricambio per auto, di un giro di vetture rubate e poi “taroccate” e rivendute in Italia o all’estero, oppure “cannibalizzate”. Alibi servito su un piatto d’argento per l’imputato, ma non secondo gli inquirenti. "Tambè ha presentato le ricevute di un bollettino pagato e di una raccomandata inviata proprio quel giorno all’ufficio postale di Muggiò - ha spiegato ieri in aula un maresciallo del Nucleo Investigativo di Monza - ma l’orario del pagamento del bollettino era le 15.55 e della raccomandata le 16.04, quindi non in mattinata quando si è verificato l’omicidio e quando tutti i responsabili sono stati chiamati a collaborare". L’inchiesta, coordinata dal pm della Procura di Monza Rosario Ferracane, nasce dalle dichiarazioni del collaboratore di giustizia Carmelo Arlotta, riesino residente a Muggiò, secondo cui l’albanese è stato attirato in un box per una compravendita di marijuana, stordito e strangolato con un filo di nylon. A commissionare il delitto Carmela Sciacchitano, 64enne residente a Genova, per vendicarsi di essere stata lasciata dall’albanese.

La donna ha patteggiato la pena di 16 anni, mentre le condanne col rito abbreviato a 30 anni e 14 anni di reclusione sono andate invece rispettivamente ad Angelo Arlotta e al fratello Carmelo. Al processo a Monza sono stati condannati Francesco Serio, 45 anni di Muggiò, cugino degli Arlotta, a 3 anni di reclusione per occultamento di cadavere, e 2 anni e 8 mesi per reati di droga, mentre il coimputato, Cosimo Mazzola, 54 anni di Cabiate, ha avuto una condanna a 3 anni per l’occultamento, oltre ai 6 anni e 6 mesi per droga. Dalla testimonianza del militare è anche emerso che sarebbe stato sempre Ignazio Marrone a portare via dopo l’omicidio la macchina della vittima..