Aleksandr Lukashenko, chi è il presidente bielorusso fedelissimo di Putin

Uomo forte o fantoccio russo? Lui si propone per mediare nella guerra ucraina e intanto dopo 6 mandati (contestati) lancia il refrendum che cambierà la Costituzione

Aleksandr Lukashenko, presidente della Bielorussia

Aleksandr Lukashenko, presidente della Bielorussia

"Non c'è un solo soldato bielorusso, non un singolo proiettile in Ucraina". Il presidente bielorusso Aleksandr Lukashenko smentisce che gli attacchi a Kiev arrivino dalla Bielorussia (che pure ha ospitato il passaggio dei tank russi) e torna a proporsi come "terzo neutrale" per accogliere il confronto sul cessate il fuoco tra Russia e Ucraina. ''Tutti stanno aspettando la delegazione ucraina a Gomel, se non arrivano è una loro scelta'', chiosa lasciando intendere, per chi ancora non lo sapesse, per chi batte il suo cuore. Tutto questo mentre, nel bel mezzo di una guerra che vede contrapposti i suoi due maggiori confinanti, la Bielorussia sta votando il referendum sulla riforma della Costituzione. Una riforma che, tra le altre cose, propone due punti chiave: che la stessa persona possa essere presidente per non più di due mandati (Lukashenko è al potere dal 1994). E che la Russia abbia la possibilità di piazzare armi nucleari sul suolo bielorusso, rimuovendo la formulazione dall'articolo 18  che ha garantito la neutralità nucleare del Paese sin dalla sua indipendenza dall'Unione Sovietica, nell'agosto 1991.

Ma chi è Aleksandr Lukashenko? Stando alla valanga di voti "ufficiali" che gli sono stati attribuiti a ogni elezione presidenziale (sei i mandati accumulati fin qui) è il "padre della patria" da che la Bielorussia ha conquistato la sua indipendenza dopo lo scioglimento dell'Unione Sovietica sotto il sole della libertà sorto nel 1989 con la caduta del Muro di Berlino. Per gli oppositori interni (costretti a riparare all'estero) e gli osservatori occidentali è l'uomo forte diventato "burattino" nelle mani della Russia di Vladimir Putin. Di certo Lukashenko non è un filo-occidentale. Non lo è da quando, così vuole la leggenda da lui stesso creata, deputato, fu l'unico a dicembre del 1991 a votare contro il dissolvimento dell'Urss e la creazione della Csi, primo passo per la costituzione delle singole repubbliche indipendenti (Bielorussia, Ucraina, Moldavia e tutte le repubbliche -stan dell'Asia minore).

Classe 1954, un passato nell'esercito sovietico tra gli Anni '70 e '80 del Novecento, Lukashenko scalò la politica sovietica al tramonto partendo dal basso, con un cursus honorum degno di un bigino sulla piramide comunista: nel 1985 la nomina a direttore di un sovchoz (le aziende agrarie "modello" del Partito) con una laurea in Agricoltura sotto il braccio e nel 1990 l'elezione a deputato del soviet bielorusso. Poi la creazione del partito Comunisti per la Democrazia, ossimorica creatura per la transizione dell'Urss verso un nuovo modello nel quale (vedi quel voto contrario del '91) forse non credeva neppure lui.

Sciolta l'Unione sovietica e ottenuta l'indipendenza, nel 1994 la Russia Bianca (la Bielorussia, appunto) doveva scegliere il suo primo presidente. Un travolgente 80% di consensi mise sulla poltrona più alta del Paese Lukhashenko: non se la sarebbe lasciata più sfuggire. Ci sono state da allora altre sei elezioni presidenziali. Una miriade di candidati sconfitti e altrettanti respinti prima di presentarsi, ma sempre lo stesso risultato: oceanici consensi. L'opposizione nel Paese ha però alzato la voce e sono arrivati gli ossservatori internazionali, a partire da quelli dell'Osce, a valutare trasparenza di campagne elettorali e regolarità delle votazioni: sempre bocciate, ma senza che cambiasse il risultato. Oppositori zittiti con le buone o, più spesso, con le cattive, fino al 2020. In corsa per il sesto mandato, Lukasheno si è dovuto scontrare con la perseveranza di Svetlana Tikhanovskaya, principale avversaria dopo aver preso il timone dell'opposizione dalle mani del marito Sergei Tikhanovsky, imprigionato e condannato dal "regime". Il risultato, scontato, recitava Aleksandr presidente, Svetlana ridotta a una manciata di voti. Non ci ha creduto nessuno: l'Occidente non ha riconosciuto il voto, le piazze di Minsk e di tutta la Bielorussia si sono riempite.Tikhanovskaya è fuggita in Lituania, ma la granitica soldità del grande capo ha iniziato a infrangersi sull'onda delle proteste. Al punto da fargli promettere una nuova Costituzione, nonostante l'appoggio tanto solitario quanto plateale (e decisivo) del "fratello maggiore" Valdimir Putin.

E torniamo all'oggi: la Bielorussia, con il gigante asiatico Kazakistan, forma con la Russia una sorta di triplice alleanza di "democrature" (quelle democrazie autoritarie che sono diventate la terza via tra l'Occidente e la Cina) che sta rinverdendo, in piccolo, il "sogno" sovietico. Più che un alleato, però, per Putin la Bielorussia è diventata una sorta di Paese satellite da cui far partire, all'occorrenza, i propri carri armati, come dimostra la cronaca di questi giorni.

L'ultima beffa potrebbe essere proprio il referendum, che Lukashenko si è precipitato a votare. Certo, la bozza prevede che il presidente possa essere rimosso dall'incarico dall'Assemblea popolare in caso di violazione sistematica o grave della costituzione o di tradimento o altro reato grave. Ma "l'organo di massima rappresentanza della democrazia" potrà anche destituire ed eleggere i giudici. Insomma pieni poteri. Ma a chi gioverà? Non al "nuovo" presidente che un giorno verrà in carica per un massimo di due mandati che o rischierà lo Stato d'accusa o (ricordate l'alternanza Putin-Medvedev al Cremlino?) sarà un'emanazione del "vecchio". La risposta la daranno forse le urne, più probabilmente le piazze. Occidente e Russia (per ora) si fingono spettatori. Ma molto interessati.