La bici è un’opera d’arte: nasce il Museo dedicato alla storica collezione di Colnago

Ci sono i simboli di vittorie prestigiose. Dal 'gioiello' di Merckx per il record dell’ora del 1972 al 'tesoro' di Tafi ancora sporco di fango del pavè

Milano - Gli scalini della storia li ha percorsi tutti, uno dopo l’altro. Con talento e feroce determinazione. Mai una scorciatoia. "Perché nella vita ci vuole amore per fare la storia, e io l’ho sempre avuto dentro". Ernesto Colnago, 90 anni, svela 'LA Collezione', museo che custodisce i suoi tesori, con i quali ha rivoluzionato il mondo del ciclismo.

Ricorda come fosse oggi quel 25 novembre del 1945, quando si presentò a 13 anni nella fabbrica della Gloria al civico 42 di viale Abruzzi, Milano. Tutto nacque da uno di quei casi della vita che - letti a posteriori - sembrano più appuntamenti con il destino. "Un mio amico mi disse: 'Vuoi venire a lavorare alla Gloria? Cercano ragazzini di 14 anni'". Ma Ernesto 14 anni non li aveva. Però, in quei tempi di macerie, sfollati, scuole serali e polenta con latte, aveva la tenacia: "Corressi la carta di identità e andai da mamma: “Domani comincio a lavorare in officina“". E lei, mamma Elvira, mica era contenta. "Meglio se fai il contadino, come tuo padre. Ma io non volevo...", sorride el sciur Ernesto. Primo giorno di lavoro: saldature. Fra i compagni, l’attore Gian Maria Volontè e il pugile Ernesto Formenti, futura medaglia d’oro alle Olimpiadi.

Lavoro, lavoro, lavoro. Ma anche la bici, da dilettante. Una dozzina di vittorie. Poi, ancora il destino a costringere Ernesto a cambiar strada: frattura del perone destro dopo il traguardo in una Milano-Busseto. Bende, asta di legno, gesso per 60 giorni. "E ora che faccio?", si chiedeva angosciato. "Lavoravo a cottimo, così convinco il capo a mandarmi a casa le ruote da montare. E in due settimane ne faccio quante in un mese". Eureka! Ernesto capisce che può mettersi in proprio. E niente soldi. Si fa pagare in materiale. "Papà Antonio mi dà una mano, mi trova l’officina, 5 metri per 5, davanti all’osteria di Cambiago, mi procura il tavolo di lavoro". Che orgoglio, nel ’54 la prima bici tutta sua, venduta per 300 lire.

La salita sembra un filo meno dura, ora. Ma per arrivare davvero in cima serve creatività. E di quella el sciur Ernesto ne ha da vendere. La vita, nel frattempo, dà un altro colpo di pedale. Quello decisivo. Durante un giro in bici, tra gli amici di una vita, spunta Fiorenzo Magni, il Leone delle Fiandre. Che ha dolore a una gamba e non capisce perché. Questione di pedivella. "Passa a Cambiago che ti metto a posto la bici", sussurra Ernesto. Il campione, circondato da ali di folla in quel paese di 2.500 anime ("galline comprese, eh", scherza Colnago), appena vede l’officina dice: "Non ci entro mica in questo buggigattolo". Ma a Ernesto bastano pochi colpi di lima e Magni non vuol più rinunciare a quel meccanico schivo, imberbe e piccolino, ma svelto di mani e di testa. Lo manda a chiamare. Lo spedisce “dal Masi“, mitologico meccanico di Magni, officina al Vigorelli. Lo conquista montando 44 ruote dalle 10 alle 18. Un record.

Il primo rischio Colnago se lo prende al Giro d’Italia del ’55. Tappa Trento-San Pellegrino, Gastone Nencini ha la rosa e la vittoria in pugno. C’è un ma. Colnago. Che consiglia componenti rinforzati e ruote più larghe. Magni attacca su una discesa sterrata, “a tomba aperta“ come dicono i francesi. Fuga con Coppi, a cui lascia la tappa. E Fiorenzo in rosa. L’anno dopo, Magni secondo in un Giro memorabile dove corre la cronoscalata di San Luca con una camera d’aria fra i denti per soffocare la sofferenza della clavicola rotta. "Consiglio mio", dice Colnago, ormai presenza fissa sull’ammiraglia. "Al passo del Penice veniva giù una pioggia terribile, Magni ci chiamò e tardammo. Lui ci fece togliere il telo dall’auto. “Se prendo l’acqua io, la prendete pure voi“. Che carattere", sospira Ernesto con l’ammirazione passata indenne fra gli anni. Nel ’57 la vittoria al Giro di Nencini sulla “sua“ Colnago. La prima di una lunga scia. Nel segno dell’innovazione. "Quando preparai la bici di Merckx per il record dell’ora nel ’72, portandola a 5,750 chili, andai a Detroit per far saldare l’attacco in titanio e alleggerii tutto: moltiplica, manubrio, catena. Mi chiamò il fornitore di catene: “Se si rompe, ti denuncio“. Per fortuna, non accadde".

In un’era dove contavano il cuore e il coraggio più che i freddi calcoli e non esistevano computer, un capolavoro di ingegneria umana. E ancora: la fuga a Mendrisio perché Merckx voleva che scegliesse con quale delle sue tre Colnago correre il Mondiale (vinto), l’incontro (ancora il destino) con Enzo Ferrari perché lui, Ernesto, si era messo in testa di fare la prima bici in carbonio, la forcella dritta ("Me l’hanno copiata tutti..."). E il terzetto Mapei con le sue bici in carbonio che taglia assieme il traguardo della Parigi-Roubaix. Cinque vittorie su sei nella classica del Nord. Nel museo c’è la bici di Andrea Tafi, ancora sporca del fango dell’inferno del pavè. Anno ’99. Lì vicino, la Colnago del doppio trionfo di Tadej Pogacar al Tour de France. Sembra un’altra era. Ma il nome inciso su queste opere d’arte su due ruote è sempre lo stesso: quello del sciur Colnago, che non voleva proprio fare il contadino.

 

 

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